Pubblicato per la prima volta il 26 ottobre 2015
“Così tra questa immensità s’annega il pensier mio:
Giacomo Leopardi
e il naufragar m’è dolce in questo mare”
È toccato a un filosofo, e non a un fisico o ad un astronomo concludere l’affascinante ciclo di conferenze, dal titolo “La luce e il cosmo” che si sono tenute da lunedì 19 a venerdì 23 ottobre presso il Nuovo Auditorium di Piazzale della Resistenza a Scandicci.
Perché un filosofo? In realtà in epoca antica filosofia e scienza (in particolare la matematica) si intrecciavano mirabilmente. Basi pensare ad Eratostene, ma anche a Talete, ai pitagorici… In ogni caso, fin dall’antichità il filosofo non smetteva di sondare il cosmo, le stelle, il cielo e la terra, da Eraclito, Tolomeo, Platone, Aristotele fino ad arrivare alla scolastica medievale. Certo, la visione cosmogonica di questi pensatori antichi poco o nulla rispecchiava del cosmo come lo conosciamo noi, grazie a scoperte scientifiche, fisiche e matematiche, che hanno avuto il loro apice con la cosiddetta rivoluzione copernicana.
Eppure, anche oggi, con il progresso della scienza e dell’indagine dell’universo arrivato ai suoi più alti livelli (sebbene quel che conosciamo di esso resti solo al 4% rispetto a tutto ciò che ancora ci sarebbe da scoprire), c’è bisogno che un filosofo ci parli di spazi celesti, di stelle, di mondi e di universi. Perché le sue domande oltrepassano quelle della scienza e alzando gli occhi al cielo, sondando i magnifici misteri dello spazio, ritornano in picchiata a un altro universo, ancora più misterioso e inaccessibile se vogliamo, quello dell’animo umano e dell’uomo, essere finito infinitamente da scoprire.
Bene, il filosofo in questione è uno dei più illustri e conosciuti del panorama intellettuale italiano: Sergio Givone, ex professore di Estetica presso l’Università degli Studi di Firenze ed ex Assessore alla cultura.
Givone parte dall’aprile del 1961. Sono giorni pasquali, anzi, specificatamente i giorni della Pasqua russa. In questo anno Yuri Gagarin compiva il primo volo nello spazio, o meglio, la prima orbita, di 88 minuti, intorno alla terra. Quando scese dalla sua navicella dichiarò alcune cose che sono rimaste negli annali, alcune delle quali furono registrate, altre non sappiamo se le abbia dette davvero, ma in ogni caso davano voce a un sentire collettivo, un sentimento che apparteneva a tutti. Due cose in particolare restano scolpite nella nostra memoria: “Sono stato lassù e lassù non ho incontrato Dio” e “Di lassù la Terra è bellissima, è tutta azzurra”. Se la prima frase non sappiamo se sia stato o meno lui a dirla – Gagarin aveva una devozione tradizionale, la sua casa era piena di icone – sicuramente sappiamo che abbia detto la seconda.
Parole molto diverse rispetto a quelle che pronunciavano gli antichi di fronte agli spazi celesti: l’universo tutto pieno. Pieno di dei o di Dio, al cui centro stava la Terra, abbracciata da altri nove cieli, fino all’ultimo, l’etere, cielo al di là del cielo. Dieci cieli (numero perfetto) a comporre un universo perfetto. Tale era l’universo di Tolomeo, di Aristotele, di Dante. Aristotele lo concepiva come un tutto ordinato da un primo motore immobile che altri non era che Dio, che muoveva il tutto con un moto circolare e perfetto. Quel primo motore immobile che Dante trasforma in amore, l’amore di Dio, amore che è Dio, amore universale che “Move il sol e l’altre stelle”.
Ecco, non è più questo cielo, di Aristotele, di Dante, quello di fronte a cui Gagarin pronuncia le sue parole, il suo saluto azzurro alla Terra, tutta azzurra e bellissima. Non è neanche più il cielo di fronte a cui Pascal smarriva il suo spirito, di fronte a cui veniva preso da attonito e spaventoso sgomento: “Le silence eternel de ces espaces infinis m’effraie”. Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi agghiaccia, mi fa rabbrividire. Il termine effrayer è molto forte, è più che angoscia, è più che sgomento, è brivido, paralisi agghiacciata. Questo “nuovo” universo è quello degli spazi infiniti in cui la terra non è più comodamente e rassicurantemente al centro, perché non esiste più un centro, o meglio, il centro è dappertutto: ciascun punto dell’infinito può essere centro di qualcosa, di una galassia, di un sistema di galassie, di una costellazione…
Gagarin gettava uno sguardo commosso, pieno di struggente emozione di fronte a quell’infinito, mentre Pascal quell’infinito lo faceva tremare, rabbrividire. Reazione agghiacciata, sgomenta del pensatore francese che di lì a poco avrebbe ispirato Leopardi, il quale in questa traboccante immensità si sentiva naufragare.
Verso dove vanno le galassie? Verso dove vanno i mondi? Non c’è più un uni-verso, non c’è più unità. In un universo infinito ci sono o ci possono essere mondi al di là dei mondi, pluriversi, universi paralleli forse e forse un aldilà dello spazio fisico che non riusciamo a pensare come materia, nemmeno come entropia.
Dove vadano questi mondi, questi universi lo dirà Nietzsche. Per lui la terra non è che un piccolo granello, una pietra scagliata nello spazio infinito. E questa pietra rimanda a un punto (una galassia), ma il mondo cui appartiene dove va? Molte le teorie scientifiche che tentano di dare una risposta. L’entropia ci dice che questo universo si consumerà e andrà verso la sua morte termica, raggiungendo il suo equilibrio termodinamico; la teoria dell’antimateria ci dice che andrà verso un buco nero che lo inghiottirà, lo risucchierà; altre teorie ci dicono che andrà verso un’alterità che ancora non siamo riusciti a descrivere. Per Nietzsche c’è “un rotolare di questo mondo verso una x”. Noi abitiamo dunque una pietra scagliata in uno spazio vuoto che rotolerà verso una x.
Tolomeo, Aristotele ignoravano il vuoto, tutto era pieno. Eraclito, prima di Tolomeo, aveva definito l’universo come “tutto pieno”. Pieno di Dei, di realtà cariche di senso, di idee: un pullulare di logoi. Un tutto pieno di leggi, di realtà materiali sublimi, meravigliosamente pieno di perfezioni (i logoi appunto): in ogni punto dell’essere possiamo trovare e riconoscere questi logoi; in una stella, in una goccia d’acqua troviamo sempre il suo logos, la sua ragion d’essere, la ragion d’essere del tutto, perché tutto è carico di essere, è carico di senso, è carico di divino.
Quando Dante trasforma il motore immobile di Aristotele nel Dio che è amore, lo pensa come amore che fa sì che tutto ciò che da esso dipende ed è mosso si innamori di esso. Però, si dirà, la terra di Dante non era così, meravigliosamente piena di logoi, di entità perfette. Tutti abbiamo abbastanza in mente “l’universo” dantesco, la figura della terra come lui l’ha immaginata: c’è un grande fiume, Oceano, che circonda la terra emersa che altro non è che una sorta di crosta posta sul grande fiume oceano. Terra abbracciata dal primo cielo, a sua volta abbracciato dagli altri otto cieli. Prima della creazione dell’uomo Lucifero cadde dal Paradiso e precipitò fino al centro della Terra; precipitando creò un grande vuoto al centro di questa crosta e al fondo di questo baratro abissale Lucifero stesso rimase “orrendamente conficcato a testa in giù”, tappando quella vuota cavità che la sua caduta aveva spalancato. Qui, in questo imbuto Dante ha posto l’inferno. Ma dove è andata a finire la porzione di Terra che si ritrasse quando Lucifero è precipitato? È balzata fuori formando una montagna, che sarà quella del Purgatorio. Abbiamo così una sorta di doppio imbuto, di due monti posti l’uno sull’altro e il secondo capovolto. Al termine di questo imbuto, di questo “monte capovolto” c’è Lucifero che conficcato al centro della terra come un tappo, impedisce che i dannati risalgano dall’inferno verso il purgatorio, mentre dal purgatorio si apre la “strada” per il Paradiso, diviso in nove cieli ricalcando il sistema cosmologico aristotelico-tomistico; ai primi sette cieli corrisponde un pianeta che a sua volta “caratterizza” o rispecchia gli spiriti dei beati ivi presenti (nel cielo di Venere dimorano gli spiriti degli amanti; in quello di Saturno gli spiriti contemplanti, nel cielo di Marte coloro che combatterono e morirono per la fede…).
Nella cosmogonia aristotelica (e poi dantesca appunto) il mondo altro non era che l’espressione di archetipi, di forme a priori dell’essere che stanno in alto, sono eterne e tengono saldo il mondo. Tutto è governato dall’altro dei pianeti. I cieli non sono che i luoghi delle forme a priori da cui viene la luce, la verità che si irradia, per riflesso, su questo stesso mondo. Quando Pascal dice “il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi agghiaccia”, o quando Nietzsche dice “questo mondo rotola verso una x” significa che c’è stata una rottura eclatante della vecchia cosmogonia di matrice eracliteo-tolemaico-aristotelica. È stata fatta piazza pulita di una perfezione archetipica di logoi e ragioni divine e celesti che si riflettono per irradiazione anche sul mondo terreno. C’è stata una rivoluzione.
È però riduttivo, prosegue il professore, pensare che questa rottura sia stata provocata solo dalla rivoluzione copernicana, a cui riconduciamo tutto. Per capire cosa ci abbia strappati da un mondo in cui la terra non solo si trovava al centro ma era il focus, il punto terminale in cui convergevano i raggi, le energie, le forze cosmiche proiettate dai diversi cieli intorno ad essa e che influenzavano le vite degli esseri che la abitavano (basti pensare alle influenze dei pianeti sulla nostra natura e sui nostri umori, della luna sulle maree…). In un’ottica simile nell’animo di ciascuno di noi si proiettava l’intero mondo, così da farci essere quello che siamo. Ecco cos’era il mondo di Aristotele e di Dante: un mondo che tutto intero si riversava dentro ciascuno di noi, così che al centro non c’era solo la terra, ma la nostra stessa anima, la nostra individualità, noi. Qualcosa ha rotto questa interezza che proiettava le potenze delle idee, delle forze a priori dell’essere in ciascun individuo, in ogni creatura. È accaduto qualcosa e non si può pensare che sia bastato un seppur grande matematico come Copernico, che su base di calcoli matematici ha dedotto la nuova costituzione dell’universo, per sconvolgere del tutto la vecchia cosmogonia. È stato davvero solo questo il gesto rivoluzionario o è avvenuto qualcosa di più perché questo gesto potesse esser realizzato?
Ebbene, qualcosa, anzi, qualcuno, che ha dato corpo a questo gesto rivoluzionario c’è stato. C’è stato Galileo. Galileo era un uomo semplice, meno matematico e più fisico; o meglio, nel suo caso la fisica prevaleva sulla matematica, era “uno sperimentatore”, era un uomo “delle sensate esperienze” e sulla base di queste ultime non si può descrivere le leggi dell’universo, poiché come ci dice l’etimologia stessa, tali esperienze sono fondate sui sensi e i sensi non possono attestare qualcosa di definitivo, a meno che non vengano avvallati dalle “evidenze certe” e matematiche che ci dicono come stanno davvero le cose. La parola stessa, matematica, viene da mathesis che per l’appunto significa intelligenza, ma Galileo, anziché fare calcoli, spiava lo spazio attraverso un cannocchiale.
Eppure è quello che vide che sconvolse il “mondo antico”. Galileo, guardando attraverso quel “bicchiere rovesciato” vide delle protuberanze sulla superficie lunare, vide delle strane macchie sulla luce del sole. È questo che stravolse il quadro di Eraclito, di Tolomeo, di Aristotele, di Dante… Aver visto delle macchie sulla luce solare e delle protuberanze sulla luna, il che significa che nel sole ci devono essere delle reazioni chimiche, sulla luna devono esserci delle attività vulcaniche, proprio come sulla Terra. Come sulla Terra?? Questo non era ammissibile. Solo qui, appunto, sulla Terra, nel mondo sublunare potevano esserci tali fenomeni e non lassù, negli incontaminati e incorruttibili spazi celesti. Perché quaggiù è tutto diverso, la Terra deve necessariamente essere strutturalmente diversa dal mondo celeste, solo lei può esser fatta di atomi, di materia in continuo movimento, di parti che si compongono e si scompongono grazie alla legge di attrazione e di repulsione, ma lassù invece non ci deve essere materia. O meglio, c’è una materia che però è immateriale, non è composta da parti soggette ad aggregazione e disgregazione, altrimenti non potrebbe essere eterna. “Stelle, voi non cadete, io invece cado”, mormora Werther prima di tirarsi una revolverata alla fine del romanzo di Goethe. Le stelle non possono cadere, perché sono fisse ed eterne. Eterne le stelle, il sole, i pianeti perché erano degli archetipi appunto, delle divinità per gli antichi, delle idee, dei centri archetipici della realtà e principio stesso dell’essere.
Galileo smonta tutto questo: se ci sono macchie c’è materia, non astrale, ma materia e basta. E c’è spazio vuoto tra i pianeti. Spazio vuoto? Chiederanno i suoi colleghi di Padova. Come immaginare uno spazio vuoto che contraddice la ragione? Ci sono crateri nella luna – che quindi è un masso – e tra lei e gli altri pianeti c’è il vuoto, che verrà pienamente pensato da un allievo di Galileo, Torricelli, e che poi provocherà sgomento a Pascal, che era un “galileiano”: il filosofo e Galileo si son adoperati nella stessa impresa di decostruzione di quell’universo perfetto e meraviglioso degli antichi proponendo quello che sarebbe poi divenuto il nostro, un universo composto di semplice materia, governato non da leggi divine o archetipiche ma dalle leggi di quella stessa materia, soggetta ad aggregazione e disgregazione, dalle quattro leggi dello spazio macroscopico e microscopico che non provengono da qualche logos celeste, ma che sono frutto della nostra esplorazione, delle nostre conoscenze e indagini scientifiche.
Si tende però a interpretare lo smantellamento di quella meravigliosa costruzione cosmologica classica come un pensiero unico. Gagarin no, che diceva: “un conto è sapere come andare in cielo, un altro è sapere come è fatto il cielo”. Sono due saperi diversi. Anche Galileo tendeva a dividere i due saperi senza sovrapporli l’uno a scapito dell’altro: “il mondo è fatto di mattoni e questi mattoni sono numeri, formule, quantità di energia calcolabile e numerabile”, questo è il nostro sapere ma esso non solo non deve pretendere di essere l’unico, ma non ci può nemmeno dire “come si va in cielo” nel senso morale, religioso, nel senso valoriale di condotta della propria esistenza, di ricerca del suo senso e del senso del nostro stare al mondo, di ricerca del nostro destino esistenziale.
Esiste anche un altro sapere, che non pretende di dirci come stanno le cose ma che tuttavia sa, perché è il solo in grado di penetrare il cuore dell’uomo. “C’è uno spirito geometrico ma c’è anche uno spirito di finezza che conosce le leggi del cuore dell’uomo” che non sono le leggi fisiche o matematiche, perché l’uomo “è folle, sempre più simile a un angelo che a una bestia”. Lui è la vera x, la vera incognita che nessun sapere o progresso scientifico potrà mai rivelare o scandagliare del tutto; è il mistero impenetrabile che nessuna formula potrà racchiudere né esplicare. Dobbiamo allora adagiarci sulle certezze, accontentarci di esse? No, perché sempre questa tensione, questa inquietudine, questa irrequietudine insita dentro ciascuno di noi ci porterà ad alzare gli occhi verso il cielo e dopo aver ammirato lo splendore del mistero disvelato dalla scienza, lo splendore della conoscenza che abbiamo di esso, lo splendore di questo sapere scientifico che ci chiarisce le stelle, i moti dei pianeti, e leggi di gravità… ci spinge a guardare oltre e a chiederci che senso abbia tutto questo, dove finisca tutto questo meraviglioso spazio celeste e terreno, umano e cosmico e che senso abbia io, piccola creatura insignificante schiacciata da tutta questa immensità, che sarà di me, infinitesimale granello di polvere scagliato nell’infinito che mi effraie, che mi sgomenta, mi spiazza, mi sconcerta, mi fa tremare. Sempre questo moto irrequieto che ci rende naufraghi smarriti nell’infinito leopardiano ci spingerà a rabbrividire e ad affannarci nella ricerca inesausta del senso di ciò che siamo e di dove andremo a finire. Sempre questo naufragio dell’esistenza dentro uno spazio abissale ci porterà a sondare i segreti del nostro cuore e della nostra piccola ma immensamente imperscrutabile esistenza e a naufragare oltre di essa, alla ricerca, forse vana, di un oltre che non appartiene agli spazi governati dalle leggi della fisica e della matematica.
Eppure la tentazione di unire il sapere scientifico, decretandolo come pensiero unico e quell’altro tipo di sapere, c’è ed è molto forte ed è per questo che ci convinciamo che “si vada in cielo” con lo stesso sapere con cui lo si conosce.
Givone poi ci introduce il primo uomo che abbia fatto il primo tentativo di viaggio interstellare. Si tratta di Savinien de Cyrano de Bergerac, libertino nato a Parigi nel 1619. Costui non era il romanticone come Rostand ce lo ha fatto conoscere, il timido sentimentale dal naso grosso che scriveva poesie alla bella Rossana senza rivelare la propria identità. Cyrano era un filosofo e un fisico (ha scritto anche un “traité de physique”) e in uno dei suoi romanzi straordinari racconta di questo tentativo di viaggio interspaziale a bordo di una navicella, invenzione fantastica immaginata però su conoscenze fisiche: vedendo che il sole fa evaporare la rugiada e notando che alle prime luci del mattino questa risale verso l’alto, l’autore immagina di costruire delle ampolle con cui catturare tutta la rugiada in modo che, alle prime luci del mattino, queste lo tirassero su verso l’alto. Arrivato tra i mondi celesti Cyrano però prova un’amara delusione, si accorge che non sono molto diversi dal nostro mondo, se non per il fatto che sono più liberi perché non hanno Dio.
Questo racconto ha un po’ instillato l’idea che in cielo si vada nello stesso modo con cui lo si conosce, che i due pensieri siano uno solo e che in fondo, non c’è granché da scoprire. Quella dell’autore è un’ironia piena di malinconia: si vuole esplorare i mondi e alla fine si scopre che non c’è niente da scoprire, che non c’è poi niente di nuovo o di diverso.
L’idea un po’ amara e rassegnata che non ci sia niente di altro, che niente di nuovo sia più possibile, che il vuoto sia davvero tale, che ciò che possiamo contemplare sia la mera ripetizione dell’identico si è incrostata nella storia della filosofia fino ad arrivare a noi, fino all’ultima esplorazione del cosmo come esplorazione dell’anima.
Si parla qui di un altro racconto. Siamo nel 1950 e Tommaso Landolfi pubblica un libro simile a quello di Cyrano, intitolato “CancroRegina”. Anche qui si parla di un viaggio interstellare, che andando alla scoperta del vuoto cosmico e degli spazi celesti va a scavare i meandri della conoscenza – e della coscienza – umana. Uno dei protagonisti è uno scrittore disperato. Dispera che esista un sapere che ci dica chi siamo, che ci dica che senso abbia la vita, che senso abbia vivere in questo universo vuoto , che ci dica che cosa si agita incessantemente nel cuore umano; dispera che esista un sapere, insomma, che ci insegni come andare in cielo, come salvarci se per salvezza si intende la possibilità di dare un senso, un significato profondo alla nostra esistenza. Pertanto lo scrittore si mette nelle mani di uno scienziato pazzo che costruisce una navicella spaziale e i due iniziano il viaggio intorno ai mondi e al vuoto cosmico che gli appare come “pura insensatezza”.
La navicella spaziale e il viaggio stesso diventano emblema, metafora dell’unica vita che ci è rimasta: la vita all’insegna del pensiero unico, del sapere unico, del sapere che ci spinge a credere che non ci sia più niente da sapere.
Il finale del libro è una macabra, quasi sconcertante immagine di questa prospettiva: lo scienziato privo di senno, si scaglia contro il suo compagno, ma quest’ultimo assesta un calcio nel petto dello scienziato che, sospinto verso un portello dell’astronave (prima da lui manomesso) viene scaraventato verso l’esterno, nello spazio infinito. Lo scrittore, dall’oblò, può perciò vedere lo scienziato che galleggia nello spazio e fissa i suoi occhi in quelli del cadavere fluttuante. Questo è il finale emblematico che traduce il rischio della nostra condizione umana quale sarebbe quella arroccata su un pensiero e un sapere unico, una volta soppressa la magia di un sapere diverso: un vivo che specchia il suo sguardo dentro quello di un morto; un morto che guarda, con occhi da morto, la vita.
Abbiamo bisogno, conclude Givone, anche di quelle favole, di quei miti che non ci dicono qualcosa di vero del cielo, di come stanno le cose, ma ci dicono e ci diranno sempre qualcosa di noi. I valori dell’uomo, i moti dell’animo umano, i suoi sussulti, i suoi spasimi, le sue passioni, i suoi dolori e i suoi entusiasmi sono qualcosa di diverso dal sapere della natura. Entrambe le dimensioni riempiono la nostra esistenza di esseri umani. Come diceva Galileo, la scienza serve per farci capire come stanno le cose, la religione per farci capire cosa dobbiamo fare, per indicarci una via per costruire il nostro destino esistenziale. Che senso abbia il mondo è un altro tipo di questione, di domanda rispetto a quella che si chiede come sia fatto. È un altro sapere, che non pretende di dirci come stanno le cose ma allude, accenna, con riferimenti e metafore, con miti e favole immemori ali cosa siamo, perché in quei miti ci riconosciamo, come se ci guardassimo in uno specchio, scorgendovi le nostre debolezze, le nostre sofferenze, le nostre fragilità, le nostre pulsioni, le nostre ferite. Ciascuno di noi deve essere scienziato e poeta insieme. Anche il migliore scienziato deve porsi la domanda “e allora? Che senso ha tutto questo? Che ci sto a fare qui?;” sono due domande che cercano risposte diverse ma pronunciate dalla stessa persona.
Il sapere scientifico non cancella la tensione verso il senso di questo essere delle cose, il senso di noi e di ciò che viviamo, dello spettacolo in cui siamo immersi e che non sempre comprendiamo anche se conosciamo le leggi che lo governano. La scienza diventa meravigliosa poesia quando la si guarda con gli occhi attoniti e meravigliati di chi di fronte a tutto questo, raggela e sbigottisce, e continua a chiedersi cosa c’è dietro, in fondo a questo abisso siderale, in fondo a questo piccolo cuore che batte, in questo naufragio di pianeti e di vite, e di mondi e di vuoto, in questo tremolio di stelle, in questi silenzi infiniti. Che tacciono quando li interroghiamo e col loro tacere non smettono mai di interrogare noi.
E forse, mi viene da dire, questa meraviglia, questo stupore, fisico e metafisico, che abbraccia la scienza ma nello stesso tempo non se la fa bastare e la oltrepassa, alla ricerca del senso, di qualcosa che trascende il “semplice” status quo delle cose, il complesso andamento delle leggi fisiche e matematiche, questo stupore che spinge a domandarsi, a non adagiarsi sulle certezze evidenti, appartiene alla filosofia, che proprio dal thaumazein (la meraviglia), sia per Platone che per Aristotele, è scaturita. Probabilmente è per questo che a concludere il viaggio metaforicamente interstellare è stato un filosofo.
Immagine di José Jiménez (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.