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greatdepression
10 Giugno 2019

Se le responsabilità della depressione fossero politiche?

Dmitrij Palagi Umanistica e sociale

Un libro di auto-aiuto per chi soffre di problemi psicologici? L’autore sospetta ci sia il rischio che così venga considerato La fine del buio. Il sottotitolo dato all’edizione italiana è esplicito. Ritrovare i legami con gli altri e con il mondo: un’ipotesi rivoluzionaria per uscire dalla depressione. La quarta di copertina riporta virgolettati di Hillary Clinton, Elton john, Naomi Klein e Matt Haig. Una presentazione aggressiva su un tema controverso.

Nelle pagine non si trovano in realtà argomenti rivoluzionari ma una rielaborazione di numerosi studi e diverse teorie. La scrittura coinvolge e rende merito allo stile di qualità di un giornalista d’inchiesta. L’immagine di apertura è autobiografica: Johann Hari, in un viaggio all’estremo oriente, per errore si ritrova avvelenato da pesticidi. Verrà curato secondo il principio per cui i sintomi vanno compresi per individuare le cause da cui nascono. Così la depressione e l’ansia devono essere comprese come segnali di una società incapace di soddisfare i bisogni psicologici dell’essere umano.

La chimica e i farmaci solo in pochissime situazioni possono aiutare, mentre nella maggioranza dei casi il tema riguarda una dimensione collettiva, anziché individuale.

Alcune persone possono essere più vulnerabili di altre ad alcune patologie del nostro tempo, ma di fondo il problema da risolvere è l’assenza di orizzonti di senso. L’assenza di un futuro di speranza, la precarietà e la disuguaglianza sono i fattori da eliminare.

Oggi se non trovi lavoro ti viene fatto un corso per scrivere al meglio il tuo curriculum. Se ti diagnosticano una depressione ricevi magari una pasticca. Se poi non ti piace l’occupazione trovata vieni invitato a cercare di meglio.

Il tutto in un contesto dove la felicità viene fatta coincidere con l’acquisto di prodotti, con il commercio come unico campo in cui costruire la propria identità. Perché la società non esiste e ci si può salvare unicamente da soli.

Hari denuncia una politica occidentale che ha prodotto devastazioni da almeno un trentennio. Le nostre vite si sarebbero svuotate di connessioni reali con chi abbiamo intorno, sostituite da quelle digitali, dove però si riproducono i valori spazzatura di natura materialista e individualista. 

Le soluzioni esistono, pur richiedendo uno sforzo collettivo e organizzato, che coinvolge direttamente la politica. I fattori sociali devono essere denunciati come causa del malessere e le soluzioni vanno trovate agendo sulle cause. Occorre costruire spazi comuni, condividere obiettivi, spezzare quella solitudine continuamente concentrata sul compatimento di se stessi. Non esistono indicazioni semplici. Meditare, pregare, ritrovarsi a contatto con la natura: tutto può essere funzionale a comprendere come il problema sia intorno a noi, più che all’interno del nostro cervello. La consapevolezza però non è semplice, soprattutto quando i bambini imparano prima a riconoscere dei marchi commerciali (come la M di McDonald’s) rispetto ai propri cognomi. 

Il mercato contribuisce a creare le condizioni per l’infelicità, indicandoci modelli irraggiungibili (interessante la proposta di costituire un ente che vieta pubblicità dannose per la salute psicologica delle persone, magari chiedendo se si è pronti alla prova costume con foto di corpi ai limiti della denutrizione).

Se la depressione fosse «una risposta al nostro stile di vita» potrebbe «ricevere qualcosa di più prezioso – l’empatia – perché potrebbe succedere a chiunque altro. Non è un’ipotesi remota. È una fonte umana universale di vulnerabilità» (p. 220).

La democrazia all’interno del sistema produttivo ed economico rientra tra le strade da percorrere, anche se Hari evita di citare Marx, mentre riporta la bella esperienza di resistenza cittadina nel quartiere Kotti di Berlino, rispetto alla questione abitativa.

«In un mondo convinto che la società non esista, l’idea che la depressione e l’ansia abbiano radici sociali sembrerà incomprensibile» (p. 361).

Per quanto il libro di Hari appaia forse troppo interessato a farsi leggere e vendere, e per quanto non sia così rivoluzionario, ecco una lettura interessante e utile a mettere in discussione lo stato di cose presenti.


Immagine di Tony Fischer da flickr.com

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Dmitrij Palagi

Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.

archivio.ilbecco.it/component/k2/itemlist/user/929-dmitrij-palagi.html

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