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26 Giugno 2020

Covid-19, un esperimento sociale per riflettere sulla nostra cultura della disabilità

Asya Bellia Diritti

Sebbene mi aspettassi che la quarantena avrebbe rappresentato un’esperienza nuova e molto dura, in realtà non è stato affatto così. Al contrario, le giornate chiusa in casa, a guardare fuori dalla finestra come un animale in gabbia, mi hanno ricordato pressoché tutti gli anni delle mia adolescenza. Molte persone disabili dalla nascita, infatti, passano dall’avere un sacco di amici in età infantile, all’improvvisa e pressoché completa solitudine in età adolescenziale, quando i compagni e le compagne normodotate cominciano a scansarli, rifiutarsi di uscire con loro e/o bullizzarli.
È facile scusare degli studenti minorenni, ma che dire della discriminazione istituzionalizzata?
Un esempio è quello delle gite scolastiche, di cui talvolta gli studenti disabili non vengono informati né dai compagni né dagli insegnanti, per evitare che partecipino. Più spesso i genitori di studenti disabili si ritrovano a doversi scontrare con docenti e dirigenti scolastici, che si oppongono perché far partecipare la studentessa disabile alla gita sarebbe troppo costoso (nonostante possano attingere a fondi appositi) o rifiutano semplicemente di prendersene la responsabilità.
Un’altra forma di discriminazione istituzionalizzata è rappresentata, per alcune categorie di persone disabili, dalle barriere architettoniche. La maggioranza delle persone in carrozzella è ancora nella Fase 1, lo è stata per anni e lo sarà ancora a lungo.

Molte persone normodotate, quando vengono confrontate su questi temi, reagiscono in uno di due modi. Il primo è compatire la persona disabile, il secondo porre la responsabilità di cambiare le cose interamente sulle sue spalle.
Entrambe queste reazioni sono fortemente radicate in quella che è tutt’oggi la chiave interpretativa dominante dell’esperienza delle persone disabili, nota come modello medico, tragico o individuale della disabilità. Come suggerisce il nome, questo modello configura la disabilità come una tragedia personale e la persona disabile come sofferente.
L’unica persona disabile felice può essere quella che “supera” la propria disabilità raggiungendo traguardi incredibili, al di fuori della portata della maggior parte delle persone normodotate. Questa persona disabile, nota come “super-crip” ha “trasceso” la propria disabilità con determinazione e forza di volontà.

A questo punto occorre capire perché un simile modello sia problematico. In fin dei conti, ci sono disabilità che possono causare dolore, anche dal punto di vista fisico. È parimenti vero che determinazione e forza di volontà sono qualità lodevoli. Considerare la disabilità come una questione individuale, piuttosto che sociale, oscura tuttavia il sistema di oppressione all’origine delle discriminazioni che ho descritto in precedenza e di molte altre ancora e così facendo legittima il sistema stesso. Se la disabilità è una questione personale, privata, allora in pubblico non se ne deve parlare, non può essere oggetto di discussione politica o portare a lotte per i diritti civili.
Inoltre, un corollario del modello medico è rappresentato dall’ordine sociale che da esso deriva. Interpretando la disabilità come mancanza individuale, esso postula che le persone disabili siano inferiori ai normodotati in ogni senso. Di conseguenza, gli individui con disabilità non sono ritenuti assolutamente in grado di valutare le proprie condizioni di vita, di prendere decisioni in autonomia o di parlare per se stessi. È come se fossero eterni bambini.
Di conseguenza, qualunque persona disabile che esprima un’opinione che in qualche modo contraddice il modello medico non viene creduta. Alle parole di chiunque venga infantilizzato, infatti, si presta la stessa considerazione generalmente riservata a quelle di un infante.

In questo contesto, il Covid-19 e le restrizioni della Fase 1 hanno avuto l’effetto di un esperimento sociale, ponendo le persone normodotate (per alcuni mesi) nei panni di quelle disabili. Nella fase 1 non potevano quasi uscire di casa, la realtà quotidiana di tante persone disabili ostacolate dalle barriere architettoniche. Nelle fasi 2 e 3, anelavano ad incontrarsi familiari e amici, ma l’idea di uscire li stressava e non si sentivano a loro agio in presenza di altre persone. Penso di poter affermare che si tratta di sentimenti familiari a molte persone disabili dalla nascita e/o con disabilità fisiche e devo dire che, messa di fronte alle difficoltà causate alle persone normodotate dalla quarantena, ho provato un senso di giustizia.
Una sensazione di breve durata, poiché il Covid-19 non ci ha affatto resi tutti uguali. Per fare un esempio, sebbene le persone le persone disabili siano state autorizzate ad andare a fare la spesa accompagnate fin quasi dall’inizio dell’emergenza sanitaria, in più di un’occasione il personale dei supermercati ha ammonito chi accompagnava un cliente disabile (e non il cliente stesso) che i disabili devono stare a casa e mandare i familiari a fare la spesa per loro.

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Asya Bellia

Sono nata a Pisa, dove ho studiato Economia e sono al secondo anno del dottorato in Economics presso le università di Siena, Firenze e Pisa. Sono in carrozzella e i miei interessi includono economia della decrescita e tematiche legate alla disabilità.

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