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DINI PRODI D'ALEMA
5 Luglio 2019

Dalla speranza nel centrosinistra al rancore diffuso? Un tentativo di storia politico-passionale

Niccolò Bassanello Sinistre

Aprile, di Nanni Moretti, costruisce un finale purtroppo debole – in quella che rimane una pellicola godibile – ma evidentemente molto sentito dal regista/attore attorno alla vittoria del centrosinistra capitanato da Romano Prodi alle elezioni politiche del 1996, la cui onda lunga emozionale sblocca la vita altrimenti insoddisfacente del protagonista del film. Su una t-shirt propagandistica prodotta da Rifondazione Comunista dieci anni dopo (2006) campeggia a caratteri cubitali uno slogan motivante ed ottimista: “vuoi vedere che l’Italia cambia davvero”. Ora faccio fatica anche solo ad immaginare chi possa avere il coraggio di indossarla, e infatti la conservo come un reperto archeologico.

Ciò che invece non faccio nessuna fatica a ricordare, anche senza esempi come i precedenti, è la carica di entusiasmo e speranza che allora era investita nella possibile vittoria dei “nostri”, di un centrosinistra in grado di vincere contro il “male” berlusconiano e di governare per cinque anni, varando finalmente riforme in grado di ricucire il tessuto sociale fatto a brandelli dalla fine delle certezze del consociativismo della Prima Repubblica e dalla globalizzazione “cattiva” (una dimensione di apertura era comunque scontata, nelle varie declinazioni di un “altro mondo è possibile”) e di migliorare la vita delle persone, tanto a livello individuale che collettivo. Certo, a questa passione di segno positivo si univano elementi più cupi di giustizialismo e di quell’antiberlusconismo che poi si è in gran parte convertito nella destra pentastellata, e certamente era una speranza dai contenuti vaghi, ma nonostante questo profondamente sentita e vissuta, almeno in quella fetta di mondo che guardava alle sinistre, e che ora semplicemente non esiste più.

Le speranze di quegli anni sono state di volta in volta frustrate da elementi estrinseci ed intrinseci. Prodi nel 2006 è stato azzoppato dalla ristrettezza del margine della vittoria elettorale e silurato due anni dopo dalla litigiosità irreconciliabile sui fianchi destri e sinistri di una coalizione troppo variegata, in una congiuntura nazionale ed internazionale particolarmente difficile; a Bersani è toccato un destino simile dopo la “non-vittoria” alle elezioni del 2013: alla relativa maggiore compattezza di “Italia. Bene comune” rispetto a “l’Unione” hanno sopperito le prime di una lunga serie di Idi di Marzo interne al Partito Democratico, il partito che della vecchia coalizione prodiana aveva assorbito gli azionisti di maggioranza. Queste debolezze e criticità “estrinseche” ai principali attori del centrosinistra si sono sempre presentate intrecciate a debolezze e assenze propriamente ideologiche, che attengono alla presenza o assenza di una visione complessiva del mondo e delle relazioni tra classi e individui.

Una visione del mondo unificante la cui assenza nel campo del centrosinistra si è fatta dolorosamente sentire per tutta la storia del centrosinistra nella sua configurazione classicamente secondo-repubblicana, e che ha probabilmente costituito il singolo elemento più importante nel frustrare le speranze di cambiamento – sempre più flebili – che quello schieramento politico di volta in volta suscitava. Nulla di forte e condiviso pur nella diversità delle posizioni univa i disparati estensori delle 262 pagine del programma della compagine prodiana nel 2006, se non un richiamo ad un pur encomiabile ma fatalmente astratto ideale di equità sociale; e le dinamiche politiche ne hanno dato prova ad esempio in occasioni come il dibattito sull’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sui fatti del G8 di Genova o la fatale questione di come gestire l’eredità avvelenata della partecipazione italiana alla War on Terror di Bush jr, e in generale nella scarsa volontà tanto governativa quanto parlamentare di imprimere una svolta riformistica di rottura con lo status quo.

La colpa del fallimento di quell’esperienza di governo venne addossata – un dispositivo destinato a tornare – alle forze minori della coalizione, ma in realtà stava in gran parte in quel vuoto ideale. Riempire quel vuoto con “qualcosa”, anche non necessariamente radicale, avrebbe pregiudicato i tentativi federatori e gli equilibri tra culture politiche disparate su cui la pratica politica del centrosinistra si fondava, diminuendo nel breve termine le possibilità di vittoria della coalizione, ed era quindi precluso. Come il desiderio incautamente espresso dei racconti nati sul modello della Zampa di Scimmia di Jacobs, o più semplicemente come un cupo rovescio della medaglia, la speranza nel centrosinistra ha infatti alimentato a livello politico una cultura del vincere per vincere, della vittoria come succedaneo delle idee, che si è rivelata infine nefasta.

Il PD ha rappresentato in questa storia una parziale discontinuità e una continuità di fondo. La continuità è facile da cogliere nella natura forzatamente post-ideologica e tecnocratica del “partitone”, che dalla fondazione ha riprodotto al suo interno le dinamiche concorrenziali e pattizie tra liberal per il “partito americano”, ex democristiani, reduci del PCI governisti, socialdemocratici e sostenitori della Third Way blariana nonché tra “rottami”, una classe di amministratori locali inadeguati e vecchie volpi della politica politicata largamente votati alla gestione dell’esistente, versus forze emergenti più connotate a livello ideale, che già avevano paralizzato l’elaborazione filosofico-politica del “vecchio” centrosinistra ulivista. Non sorprende che un PD ancora lontano dal renzismo si sia gettato tra le braccia del grigiore montiano e abbia avidamente collaborato nell’imposizione di un “new normal” austeritario palesemente insostenibile in mancanza di un consenso forte.

Una prima discontinuità, invece, sta nell’aver posto fine al centrosinistra come dispositivo per vincere coalizzando il più ampio fronte possibile, picconato prima dalla dottrina della “vocazione maggioritaria” veltroniana e poi definitivamente archiviato dal fallimento di “Italia. Bene comune” e dall’ascesa di Renzi alla segreteria del PD.

La fine del centrosinistra “classico” di Seconda repubblica, quindi, non ha significato un rafforzamento dell’impianto ideologico del PD, né – ed è una ulteriore continuità – la fine della “cultura del vincere”. Anzi, quest’ultima, assieme alla speranza diffusa nel centrosinistra, suo rovescio “buono”, è stata piegata da Matteo Renzi in una sorta di fede bonapartista nell’avvento del Princeps riformatore che risponde solo alla confience popolare, che a sua volta lo investe del compito di ripulire la vita politica dagli interessi faziosi e da coloro che ostacolano il progresso della Nazione. Tutta l’azione renziana segue questo filo rosso, dalla retorica della rottamazione alle fanfaronate sulla mensilità delle riforme a mosse populiste come gli ottanta euro e lo scontro masochistico con l’Unione Europea; una prassi politica discutibile e a tratti grottesca, ma che almeno nei primi tempi sembrava riuscita a rivitalizzare la speranza perduta.

Ai primi risultati entusiasmanti, come il massimo storico per il PD alle Europee del 2014, che dimostrano la portata politica della speranza di cui si è parlato, è seguito nel giro di pochi anni il crollo del referendum costituzionale, seguito a stretto giro – dopo lo stanco sopravvivere del governo Gentiloni – al disastro delle scorse politiche, che mostra la portata degli effetti della fine di quella passione e della delusione dilagante. Come dimostra la conclusione delle esperienze del PD al governo tra il 2013 ed il 2018 la pratica politica e la tattica non potranno mai sostituire il ruolo di un vero messaggio ideale, a cui improntare una azione di governo coerente e capace di ispirare l’elettorato. L’azione dei governi che si sono succeduti in quegli anni ha frustrato ogni aspettativa di cambiamento, con un’azione di governo che da un lato ha confermato il new normal postmontiano e dall’altro lato si è persa in misure poco incisive se non antipopolari, o direttamente nella rincorsa alla destra arrembante; un completo, stanco codismo delle pastoie della Market reform che fa da sfondo alla “politica” postmoderna.

Nemmeno Renzi – a differenza di ciò che, pur in assenza di una qualunque condivisione delle politiche renziane, in un primo momento era sembrato anche a me – è riuscito a dare un’anima al Partito Democratico, nemmeno l’anima liberal all’acqua di rose e centrista che ha innervato il suo eponimo americano dalla Presidenza Clinton in poi, ed è rimasto così poco più che un incompiuto nano politico dai piedi di argilla. La “speranza di centrosinistra”, una passione che tutto sommato mobilitava la gente verso obiettivi positivi, ha lasciato la storia forse per sempre, cedendo il posto al rancore, ad un sempre più endemico odio e alle pulsioni di morte che spingono molti italiani di oggi verso i tristi lidi del populismo e della xenofobia. È questa, forse, l’eredità più pesante di un fallimento annunciato.

Pubblicato per la prima volta il 18 giugno 2018

Immagine da wikipedia.org

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Niccolò Bassanello

Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/960-niccol%C3%B2-bassanello.html
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