Le immagini che scorrono da circa un mese a questa parte rappresentano e fotografano un mondo nudo di umanità. Un mondo svuotato di presenza umana. Noi, che eravamo così abituati a sentirci protagonisti del suolo che calpestavamo, delle strade che intasavamo, dei sentieri sui cui camminavamo, dei monumenti, spazi pubblici, piazze che affollavamo, noi, ci siamo scoperti irrisori. Irrisori e insignificanti di fronte a un mondo che va avanti senza di noi. Di fronte a un ambiente che si sta riappropriando dei suoi spazi, del suo ossigeno, dei suoi animali, dei suoi sospiri, dell’aria lievemente più sana perché meno avvelenata dai veleni dello smog, dell’inquinamento, dei fumi delle fabbriche.
Noi che ci credevamo padroni del mondo adesso ci sentiamo presenza estranea, e persino di troppo, in un mondo che si è svuotato di noi. Le immagini catturano grandi spazi completamente desolati. Piazza del Duomo e Ponte Vecchio a Firenze, il ponte San Marco a Venezia, il Colosseo a Roma, La Grande Arche, Notre Dame, il giardino sotto la Tour Eiffel a Parigi, i ponti di ogni città, completamente deserti, privi di umanità, pieni solo della loro, ancor più spiazzante e indomita bellezza. Una bellezza che si erge ancor più evidente perché senza folla che la nasconda, che la soffochi, che la opprima, ma al contempo suscitando un sentimento di inquietudine, una sensazione perturbante, non familiare, un senso di alienante estraneità. Come se quella bellezza si stesse trasformando in qualcosa di alieno, nel senso etimologico del termine, di totalmente altro e inaccessibile a noi. Perturbante, nel senso freudiano, è effettivamente, la parola giusta: l’unheimlich, il non familiare. Questi spazi, questi luoghi, questi monumenti, che abbiamo guardato, ammirato o davanti a cui siamo passati, a volte con distratta apatia, migliaia di volte, improvvisamente rivelano un volto non familiare, alieno appunto. Ci sembrano così diversi e distanti da quelli che conoscevamo e la loro bellezza adesso si carica di un fascino pericoloso, minaccioso e quasi apocalittico perché ci ricordano la nostra finitezza e insignificanza, la nostra fragilità e la nostra non durevolezza. Ostentano la nostra effimera precarietà. Il nostro passaggio breve, che, alla prima crisi, non lascia tracce né orme.
Queste immagini che scorrono sui media, sui social media, le fotografie che vediamo, scattate da umani, ma forse soprattutto da droni, questi spazi nudi ripresi dall’alto di qualche avanzata tecnologia mettono a nudo la nostra precarietà, la nostra inconsistenza e questo ci disorienta, ci sconforta, ci spaventa ma al contempo in qualche modo ci attrae, in quella dinamica che è stata chiamata “ruin porn”, il fascino delle rovine, dell’apocalissi, degli scenari che “incarnano” la disincarnazione, la mancanza della carne, della presenza umana, la fine dell’umanità, come avviene in qualche film distopico o, appunto, apocalittico. Le immagini che popolano i nostri canali mediatici, nonostante rivelino plasticamente la terribile realtà che stiamo subendo, ci offrono uno spettacolo visivo cui è difficile resistere, da cui sembra impossibile distogliere lo sguardo, nella perfezione pura, incontaminata, delle loro forme, della loro architettura, dei loro spazi così vuoti, ampi, infiniti.
La mancanza di soggetti umani ci offre una prospettiva senza fine. Ci sentiamo gli unici spettatori di fronte a una scena senza protagonisti se non lo spazio stesso. Ci sentiamo protagonisti noi stessi, solitari paladini di uno spettacolo che non ne ha.
Infatti, anche se queste immagini testimoniano una situazione annichilita e annichilente, testimoniando l’annullamento o, sperabilmente, “solo” la sospensione, la messa in stand-by della vita, dell’esistenza, della quotidianità così come la conoscevamo e la vivevamo, hanno un fascino inedito e, per quanto alienante, suggestivo. Ci invitano, forse, a fermarci un attimo, a soffermarci con un occhio più attento, chirurgico, più incantato, ancorché tristemente malinconico, su quegli spazi svuotati di umano, spingendoci a comprendere ciò che essi ci sussurrano. E quello che ci rivelano è proprio la fragilità della vita umana, in questo momento messa così a repentaglio da una pandemia distruttiva, che causa morte, desolazione, che ha sradicato quella che avevamo interiorizzato come normalità.
Le “fotografie delle rovine”, che forse, nel nostro caso sarebbe meglio chiamare “fotografie dell’abbandono”, secondo Tim Edensor, professore di geografia alla Manchester Metropolitan University, “offrono una fuga dall’eccessivo ordine […] Si possono vedere e sentire cose che non si vedono né provano nel mondo ordinario”.
È d’obbligo comunque sottolineare delle dovute differenze tra la fotografia delle rovine e le immagini che scorrono sui nostri schermi. Nel “ruin porn” i soggetti sono luoghi abbandonati, fatiscenti, rovine appunto, che spesso vanno a testimoniare il fallimento urbano, economico di una città o di un edificio, oppure vanno a mostrare, implicitamente, l’orrore del degrado, della povertà, anche se mai, o quasi mai, vi sono soggetti che interagiscano con le rovine. Tanto che alcune critiche al “ruin porn” parlano di “sensazionalizzazione della povertà”, anche se a mio avviso, più che di sensazzionalizzazione o esaltazione, parlerei invece di denuncia, di denuncia visiva, in forma d’arte, di un mondo che sembra luccicare nella sua più scintillante e ordinaria apparenza ma che nasconde (e nemmeno troppo bene) angoli, squarci, intere zone e spazi di degrado e povertà estremi, di abbandono fisico e psicologico di coloro che sono considerati gli ultimi della società.
Spesso i luoghi, gli ambienti, gli edifici immortalati dall’obiettivo di qualche fotografo rendono visibile ciò e chi tendiamo ogni giorno, a livello politico, economico, sociale, morale, umano, a invisibilizzare. Soggetti invisibili che vivono in rovina negli spazi in rovina. In altri casi le fotografie delle rovine si soffermano su edifici abbandonati, testimoni appunto di un degrado, di un fallimento, di un abbandono non solo urbano-architettonico ma anche umano, come nel caso della evocativa fotografia di Matthew Christopher, che ha scattato foto al Philadelphia State Hospital abbandonato. “Una sedia a rotelle si trova al centro della scena, con il retro in vinile arancione riecheggiato da un tavolo rotondo appoggiato a un muro, dipinto in una familiare tonalità di verde istituzionale. Un materasso, appiattito e sporco, giace gettato su un pavimento disseminato di intonaco caduto. In primo piano, un cestino di metallo rovesciato parla di volumi. Uno specchio riflette l’intera scena triste. È romantico, nostalgico, malinconico, provocatorio. Riguarda il tempo, la natura, la mortalità, il disinvestimento”[1].
Christopher, che è passato dallo studio della salute mentale alla fotografia ha visitato e poi immortalato altri trecento manicomi e fabbriche abbandonate, ha dichiarato che all’inizio era spinto da semplice curiosità, ma poi “mentre si trovava in mezzo ai corridoi misteriosamente silenziosi e ai soffitti scrostati di un’istituzione allo stesso modo fatiscente”[2], sembra aver individuato un suo ruolo nella storia della salute mentale, quello di darle una voce, darle delle parole sotto forma di immagini. “Quando ho visitato il Philadelphia State Hospital abbandonato, e poi alcuni altri, sono stato in grado di collegare i punti, per vedere i progressi del trattamento nel corso degli anni”, ha affermato Christopher. “L’architettura e l’etica dei tempi sono diventati collegati per me […]”[3]. Studiare l’ambito della salute mentale non era sufficiente e una volta visitati gli edifici abbandonati di manicomi e ospedali psichiatrici si è reso conto che “tutto questo era reale, non astratto”[4].
Le immagini di luoghi abbandonati, decadenti, non è una novità dei nostri tempi, sebbene forse oggi questo tipo di fotografia si sia caricata (e da qui il termine “porn”) di un’attrazione voyeurisitca, quasi pornografica appunto, tanto che l’occhio sembra ricercare volutamente il macabro, il derelitto, la sporcizia, l’abietto, forse perché da una posizione di intoccabilità e di sicurezza. Una sorta di fascino dell’orrore quando si sa di esserne al riparo. Ma già durante il “Rinascimento venivano dipinte le rovine della maestosità della Grecia Antica, più a testimonianza di un passato glorioso ma ormai finito per sempre; Le incisioni di Piranesi commemorano l’antichità romana mentre veniva demolita. Il fotografo Eugene Atget ha cercato tutti i frammenti di una Parigi in rapida scomparsa che ha potuto trovare in un’era post-Haussmann”[5].
Le immagini che ci scorrono davanti agli occhi non rappresentano rovine, né edifici o ambienti decadenti o lasciati al proprio degrado, ma evocano comunque l’assenza. L’assenza della vita, per lo meno della vita umana e anche se manifestano, come dicevamo all’inizio, una bellezza che ci lascia attoniti, proprio perché incontaminata, proprio perché capace di sprigionare un’anima autentica, genuina, una vitalità propria libera dal commercio degli uomini, dalla loro manipolazione, dal loro traffico, dal loro (sovra)affollamento, questi deserti ci parlano di vuoto, di solitudine, di una epoché, una messa tra parentesi del quotidiano. Ci mettono davanti a spazi ed edifici che si ergono in una maestosa bellezza, che però, in questo momento a noi risulta inaccessibile, irraggiungibile e ci evoca una nostalgia straziante, struggente perché quei luoghi, almeno per adesso, non possiamo più viverli.
In realtà già all’alba dell’era della fotografia i soggetti, per lo più non erano animati. Tutto ciò che si muoveva era invisibile e venivano privilegiati edifici, o anche cadaveri, soggetti immobili o spazi vuoti. Come nella famosa foto di Daguerre del 1839, Boulevard du Temple, che rappresenta questa via di Parigi, solitamente, già allora, molto trafficata, quasi completamente deserta, se non per la presenza di due figure umane che evidentemente erano rimaste ferme abbastanza a lungo da poter essere catturate dal dispositivo usato. In fondo molte fotografie, ma anche molti quadri paesaggistici o urbani, ci hanno offerto lo specchio di un mondo in cui il soggetto specchiante è assente. Un mondo senza di noi.
Molti artisti contemporanei si prodigano nella ricerca di spazi deserti, nudi, vuoti. Per citare un esempio, la fotografa d’arte contemporanea Candida Höfer ha costruito tutta la sua carriera fotografando spazi vuoti in luoghi giganteschi: biblioteche pubbliche, musei, teatri e cattedrali, le strade vuote di Thomas Struth, città tedesche che l’obiettivo trasfigura in città fantasma[6].
E più gli spazi ritratti appartengono solitamente a un immaginario che li vede affollati, pieni di gente, macchine, movimento, più l’effetto è disorientate, spiazzante. Perché non sembrano neanche gli stessi luoghi, le stesse attrazioni turistiche, gli stessi edifici, le stesse piazze. O sembrano gli stessi ma appartenenti a un altro tempo, un passato perduto o un futuro ancora da venire, un futuro apocalittico. O un presente strano, angosciante, come quello che viviamo ai tempi del Covid-19. Queste immagini testimoniano una desolazione infinita, che spaventa ma, un po’ come accade con le fotografie “ruin porn”, al contempo affascina, ci perfora i sensi in maniera viscerale, con un potere quasi ipnotico.
Questo fascino potrebbe essere dovuto a quello che lo storico dell’architettura Anthony Vidler ha descritto come “architettura strana” o “architettura inquietante”. Spazi abbandonati e deserti, dice, trasformano spazi familiari in spazi sconosciuti. Queste fotografie di spazi pubblici vuoti catturano una rottura con la nostra vita quotidiana e ci permettono di visualizzare la stranezza di una realtà alternativa. Per Vidler, questa realtà è “Sinistra, inquietante, sospettosa, strana; si dovrebbe parlare di ‘paura’ piuttosto che di terrore, attingendo la sua forza dalla sua stessa inspiegabilità, dal malessere nascosto, piuttosto che da una fonte chiaramente definita di paura – una sensazione spiacevole di ossessione piuttosto che un aspetto”[7].
Mentre siamo al riparo, in quarantena, il mondo esterno appare nell’immaginario collettivo come stranamente disaffezionato dagli esseri umani. Ciò che pensavamo di sapere sugli spazi pubblici ora evoca la sensazione di essere soli in una casa stregata.
Nelle immagini in cui di solito vediamo folle di persone, ora si scorgono solo alcune figure solitarie che ci vengono presentate da un singolo osservatore: la macchina fotografica o l’occhio di un drone.
Le rappresentazioni della vita urbana svuotata dei suoi abitanti producono tutta una serie di reazioni emotive e psicologiche: alienazione, alienazione sociale, malinconia, nostalgia, spiazzamento, smarrimento, senso di solitudine incolmabile.
Sono immagini di abbandono, quando le guardiamo sembra di trovarci nei quadri di De Chirico.
“Il pittore italiano Giorgio de Chirico infatti lo catturò bene nel suo dipinto del 1913, Malinconia di una bella giornata, in cui una figura inquietante si trova sola in una strada vuota della città, accompagnata solo dalla sua ombra, con una statua romana in lontananza. Dipinta oltre un secolo fa, l’opera di De Chirico trova una sorprendente risonanza con le fotografie che vediamo oggi sui media. Se offre un esempio storico del fascino surrealista per i sogni, prefigura anche la nostra realtà contemporanea”[8].
Nei quadri del pittore surrealista il tempo sembra sospeso o dilatarsi all’infinito, entro una dimensione che non sembra più terrena, ma neanche del tutto ultraterrena, sembra un limbo tra ciò che era e ciò che non è ancora. Una dimensione fantasmatica in cui le ore sembrano ripetersi senza tempo, o in un tempo che ripete se stesso all’infinito, in una corrente sempre uguale del ripetersi.
Come il tempo di Bergson. Il tempo che non può essere spazializzato, non può essere suddiviso in attimi, in un prima, un poi, un’ora. Per Bergson l’idea di tempo “scientifico”, omogeneo e reversibile, quantitativo e calcolabile, che si limita a riprodurre l’idea dello spazio geometrico, deve essere rifiutata poiché totalmente inadeguata, in quanto ciò che viene misurato non è l’intervallo di tempo in sé, ma solo una porzione di spazio. Secondo l’autore francese anche il tempo, così come ordinariamente, ma anche scientificamente o convenzionalmente lo intendiamo, subisce l’artificio della spazializzazione, mentre, a parere di Bergosn, occorrerebbe recuperare la durata: questa è un puro divenire, che si fa e si disfa, è una mutua penetrazione, un’intima organizzazione di elementi ognuno dei quali rappresenta il tutto.
Ciò che registra la durata reale è infatti la singola coscienza per la quale il tempo è inesteso e non divisibile, qualitativo ed eterogeneo, non misurabile e irreversibile. C’è un’inconciliabile scissione tra il mondo e la sua coscienza, come egli stesso scrive: “nel nostro io c’è successione senza esteriorità reciproca, fuori dell’io esteriorità reciproca senza successione”. Nella durata la coscienza ha coscienza solo del cambiamento qualitativo, del movimento inteso non come linea retta ma come mutamento. L’io vero è un io colto nel flusso cangiante del suo incessante divenire e il suo tempo è quello di un presente che simultaneamente è ritensivo – dato che conserva il momento passato – e pro tensivo verso il futuro che si sta configurando. È un io preso tra la molla del passato che lo trattiene e la molla del futuro che lo distende in avanti.
Il tempo che viviamo non sembra poter essere spazializzato, suddiviso e scandito da minuti, ore, settimane, come facevamo in maniera quasi ossessiva prima della pandemia, perché ora ciò che avvertiamo è un tempo indivisibile, non calcolabile, un flusso continuo in cui sentiamo che qualcosa è in divenire, ma fuori dal nostro controllo, dalla nostra presa.
Un tempo che oggi riproduce il battito cardiaco. Il battito del cuore che non ha tempo. Batte e non sappiamo a che velocità lo faccia, se non dotandoci di strumenti medici opportuni per calcolarne il ritmo.
Forse la dimensione delle immagini e del tempo che stiamo vivendo sembra essere la stessa. Qualcosa che ci fa riappropriare di una memoria non scomparsa, di un passato recente che non svanisce ma che in questo momento sembra congelato e una protensione, non sempre ottimistica ma comunque viva, verso quel che accadrà. Alle spalle abbiamo una normalità che sembra perduta, che probabilmente non sarà più la stessa, da molti punti di vista e davanti un futuro incerto, mentre ora viviamo in un tempo dilatato, ovattato in un ripetersi dell’uguale sconcertante.
E forse dovremmo chiederci anche quale era il nostro modo di viverci il tempo, di vivere gli spazi. Si trattava più di fagocitare, divorare, consumare gli ambienti, i suoi prodotti, per ricavarne profitto, senza godere di una bellezza ritenuta superflua laddove non consumabile. E anche il nostro tempo sembrava fagocitato dall’urgenza, dalla frenesia, dalla fretta, dalla produzione o il consumo incessanti. Dal vortice della globalizzazione, del profitto con ritmi sempre più incalzanti, sempre più lobotomizzanti, fino quasi a renderci spettatori di una corrente temporale che non riuscivamo già del tutto a controllare né a vivere. I tempi stretti, sempre riempiti e scanditi da mille impegni adesso si sono fatti così larghi e dilatati che pare vivere in una dimensione ovattata, quasi onirica. E ci sentiamo spiazzati perché il tempo e lo spazio così come li viviamo ora non li abbiamo mai conosciuti, se non forse, le generazioni precedenti a quelle dei nostri genitori.
La solitudine, la lentezza, il vuoto, per quanto adesso provochino, almeno per la maggior parte di noi, un grande sconforto, una profonda nostalgia e per alcuni, una lancinante depressione, sono parole che proprio perché poco conosciute, poco vissute, andrebbero in parte riscoperte, trovando, anche quando la situazione tornerà a una simil-normalità (perché niente tornerà esattamente come prima, a cominciare dai rapporti umani e dalla distanza che, sicuramente almeno in un primo periodo, non potrà essere cancellata, non del tutto) un equilibrio sostenibile tra la voracità del vivere cui eravamo abituati e l’assenza, la bolla di solitudine e gli interstizi di vuoto in cui siamo ora immersi.
Ci troviamo spiazzati perché ci sembra di aver perso il controllo su quello che credevamo essere in nostro potere. La biologia sembra averci sconfitto, aver distrutto la nostra routine, i nostri tempi, i nostri spazi, la nostra socialità, il nostro stesso vivere, la nostra esistenza, che fino a ora era concentrata sulla produttività, sulla funzionalità, sul lavoro e che adesso si trova a sfumare in un’inconsistenza eterea ed evanescente. Niente (o quasi) più produttività, niente (o quasi) funzionalità. Si sono interrotti gli ingranaggi con cui abbiamo costruito la produttività, la funzionalità delle nostre vite e il senso che queste le conferivano.
Come ha scritto Galimberti, “abbiamo fatto del ruolo lavorativo la nostra identità” e ora, in mancanza di quello, ci sentiamo come pedine impazzite, completamente spaesate, perché non sappiamo più riconoscerci al di fuori di un ruolo lavorativo o produttivo. Anche per gli stessi precari il lavoro era/è comunque un obiettivo, un impegno cui far fede, pur nella drammatica situazione di incertezza economica e persino psicologica ed esistenziale che subisce sia chi è precario, sia chi il lavoro lo ha perso, sia chi un lavoro non ce l’ha e lo vorrebbe, sia coloro che, anche nel bel mezzo della pandemia, continuano a essere sfruttati. Ma ora, parlando in maniera generalizzante, non si va a lavoro, non ci sono rapporti sociali, non ci sono rapporti umani, se non quelli virtuali che però ostentano e sottolineano ancora di più l’isolamento dei corpi e la distanza dalla consistenza e dalla fatticità di quelle vere, reali, fisiche di relazioni. Anche se è pur vero che ormai da tanto tempo, molto prima che il Covid-19 ci costringesse in casa, la tecnologia e i social media stavano già definendo lo sfilacciamento dei rapporti reali, sostituiti sempre di più da quella prossimità a distanza che regalano le nuove forme di comunicazione e di informazione. Ma ora che subiamo, anche solo dal punto di vista psicologico, l’impossibilità di questi contatti, rimpiangiamo la mancanza della fisiognomica, della gestualità, della presenza fisica, degli abbracci, degli sguardi.
Le immagini non fanno che ribadirci quanto davvero siamo impotenti di fronte alla catastrofe biologica che stiamo subendo, alla catastrofe umana, sanitaria, economica che ci ha strappati via da una quotidianità malata, sicuramente, ma che avevamo interiorizzato e il cui strappo ci ha messo di fronte alla nostra effimera esistenza, alla paura di sparire, come stiamo sparendo dagli obiettivi delle macchine fotografiche, come ci siamo dissolti dai paesaggi, dalle strade e dalle piazze. Andrà ripensato un mondo diverso, che non è quello della solitudine assoluta e obbligata e del controllo disciplinare e autoritario, ma che non può neanche essere quello vorticoso che avevamo lasciato, che smantella la nostra dimensione umana per renderci automi, produttori di merce e merce noi stessa.
Come ha sottolineato lo storico della cultura Frederic Jameson “È più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo”. Credo che questo sia drammaticamente vero, perché, dopotutto, è quel mondo lì che a molti di noi, anche se forse inconsapevolmente, manca. È più difficile combattere il capitalismo dentro di noi, che non quello fuori di noi. Nel frattempo ciò che c’è fuori attesta la presenza della nostra assenza e forse su questo dovremmo davvero riflettere, su quanto sia fragile e infinitesimale la nostra piccola esistenza e quanto possa esser costantemente messa a rischio.
“Le fotografie mostrano quanto velocemente possiamo allontanarci dalla nostra vita quotidiana, come il nostro ambiente può improvvisamente trasformarsi in qualcosa di fragile. Gli scaffali vuoti, i ristoranti vuoti, gli aerei inchiodati al suolo, gli aeroporti vuoti, la Mecca spopolata dei suoi fedeli, Trafalgar Square senza turisti: tutti segni del rallentamento dell’attività, scomparsa dei segni del progresso tecnico. Se la fotografia è così efficace nel catturare ciò, è perché è un occhio meccanico senza mediazione che affronta il nostro occhio troppo umano. Perché la fotocamera può essere dove non possiamo essere. Questa visione dell’occhio meccanico è accentuata nelle fotografie che ci danno una visione chiaramente non umana di spazi immensi e vuoti. Le immagini scattate dai droni offrono una prospettiva aerea a cui l’occhio umano non ha facile accesso. Nel contesto di questa crisi sanitaria globale, non vi è dubbio che stiamo – stranamente – assistendo alla nostra stessa cancellazione”[9]
Questo sembrano dirci le immagini che sfilano sui media. segnano la rottura con il flusso della nostra vita quotidiana, sanciscono la rottura dei nostri rapporti, o la distanza abissale che dovrà da essi separarci per ancora tanto tempo. Ci mettono di fronte alla morte, che fino a ora avevamo rimosso, reso tabù, ci parlano di una negatività che, sebbene sia stata sempre presente, adesso ci travolge trovandoci impreparati. Testimoniano la nostra assenza, un’assenza che nel nostro egocentrismo, antropocentrismo, nella nostra convinzione di poter padroneggiare il mondo, lo spazio e il tempo, non credevamo possibile. Noi lì non ci siamo e la sensazione è quella che ci stia passando davanti la Storia, senza esserne del tutto presenti, se non, appunto, come spettatori assenti, spettatori di un vuoto che ci riempie gli occhi, lo sguardo, e anche l’anima.
-
https://www.citylab.com/design/2012/01/psychology-ruin-porn/886/ ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem ↑
-
https://theconversation.com/au-temps-du-coronavirus-letonnante-melancolie-du-vide-134568 ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
Immagine Tyler Wilson (dettaglio) da flickr.com
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.