Di accoglienza e razzismo
La dichiarazione della Presidente del Friuli-Venezia Giulia circa la diversa accettabilità sociale dei crimini, che sarebbe minore se l’atto è compiuto da un immigrato, e la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato un uomo sikh per il possesso di un’arma da taglio rituale, hanno riportato al centro del dibattito pubblico gli interrogativi circa le forme, i modi, i limiti del multiculturalismo.
Salvini, che aveva invocato la «pulizia di massa» contro i migranti, denuncia ora la “pulizia etnica” che sarebbe in atto a danno degli italiani; Milano è teatro di una massiccia operazione di polizia per l’identificazione degli immigrati e, tre settimane dopo, di una marcia antirazzista organizzata dal Comune; mentre l’inchiesta della Procura di Catania sulle presunte collusioni tra Ong e trafficanti di esseri umani divide le forze politiche anche all’interno dell’esecutivo Gentiloni.
Se da un lato la continuità temporale della narrazione attorno alla “questione migratoria” segnala che il fenomeno migratorio è uno dei fatti storici che definiscono la nostra epoca, d’altro canto i toni allarmistici e i contenuti spesso inaccettabili che vengono veicolati da politici e carta stampata quando parlano di “immigrazione”, o concretamente di richiedenti asilo e migranti, ci parlano del persistere apparentemente paradossale di una logica emergenziale nella gestione del fatto storico delle migrazioni, che ostruisce il passo ad ogni possibile razionalità di sistema.
Al di là dell’inutile polverone sollevato a proposito di ONG da una parte di magistratura, dovrebbe sorprendere che venga demandato alla buona volontà di equipaggi di privati cittadini il sopperire, per quanto riguarda i salvataggi in mare, alla debolezza e alle mancanze (e tragicamente alle omissioni) delle marine e delle guardie costiere europee. Come al di là dello scandalo delle infiltrazioni mafiose nel caso di Crotone dovrebbe sorprendere che ad un ente caritatevole confessionale come una Confraternita della Misericordia sia appaltato, con la gestione di un CARA, addirittura parte del potere coercitivo dello Stato. Su tutto regna l’improvvisazione e il disinteresse, prova ne è che nel bando per l’assunzione di personale qualificato per le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, che andranno a definire le politiche di accoglienza, tra i titoli di studio richiesti compaia la laurea magistrale in Teoria e metodologia dell’e-learning e non in Antropologia culturale.
Il paradosso è però presto sciolto. In Italia come in molti altri Paesi europei l’appello al voto xenofobo è da tempo il vero collante che unisce centrodestra e centrosinistra. La logica emergenziale persiste perché chi si dovrebbe occupare del bene comune insiste nel considerare le migrazioni uno spiacevole fenomeno transitorio, da affrontare al massimo con “soluzioni” temporanee e poco esigenti in quanto a risorse o a colpi di “aiutiamoli a casa loro”. Forze politiche che propugnino una visione coerente di apertura e stabilizzazione non pervenute.
Le migrazioni che investono sempre più massicciamente il nostro paese non solo divengono sfacciatamente degli ambiti di business in cui diversi attori economici vengono invitati dallo Stato a competere, ma influiscono sempre più anche sul senso comune di una popolazione mantenuta nel divide et impera.
Così non ci si può stupire che le dichiarazioni razziste di chi vuole introdurre una legge penale con due pesi e due misure arrivino da un partito moderato di governo. Dalla svolta neoliberista del duo Thatcher-Reagan viviamo in una fase politica in cui i partiti moderati di governo eseguono ciò che la destra politica auspica. E la destra politica sposta accuratamente il limite della legittimità di determinate proposte, lavorando attentamente per egemonizzare la popolazione. Così si ottiene una politica col baricentro sempre più spostato verso un quadro in cui multiculturalismo liberale e razzismo convivono in una miscela esplosiva che è sempre sul punto di detonare.
Un punto fondamentale su cui occorre ragionare continua ad essere il ruolo dello Stato nei fenomeni migratori. Infatti, questo Stato che si autoproclama rispettoso dei diritti liberali e sociali non può concepire le persone unicamente come oggetti economici. Eppure questo è ciò che continua a fare quando militarmente destabilizza altri stati sovrani che confinano con esso, quando delega politiche fondamentali per la dignità umana, come l’accoglienza, ad attori privati. Non ci si può quindi stupire delle condizioni neoschiavistiche che si riaffermano anche in Occidente se l’accoglienza di fasce sempre più estese della popolazione mondiale viene delegata ad un universo parallelo di attori che per autofinanziarsi necessitano di un mercato con una propria moneta e una propria merce, le persone. Ecco, dietro la faccia pulita di chi si vanta di aiutare gli ultimi c’è esattamente chi sfrutta il ritiro dello Stato da politiche sociali un tempo considerate imprescindibili.
Oggi che una persona sia costretta per necessità a dormire in stazione e a cibarsi di rifiuti è considerato non più lesivo della dignità della persona e lo Stato accetta pacificamente questa condizione in nome della libertà di movimento, delegando le politiche di sostegno a queste fasce di persone in povertà assoluta ad attori che inevitabilmente esercitano lucro da tale professione. È solo l’ultima deriva della “grande trasformazione” in cui l’uomo diventa sempre più merce su cui lucrare e in cui i settori di mercato si rinnovano, dilatandosi fino a inglobare ambiti della vita un tempo inconcepibili. Oggi i poveri diventano una merce sempre più sovrabbondante e possiamo starne certi che il capitalismo riuscirà ad estrarre plusvalore anche da chi è costretto a cercare il suo pranzo in un cassonetto, basta far diventare un mercato la povertà stessa ed estendere la fascia dei bisognosi.
Il discorso delle Ong andrebbe affrontato scientificamente e a mio modesto parere inserito nella svolta neoliberista per coglierne a fondo gli aspetti più pregnanti per via delle ricadute sulla società attuale che necessita di settori di mercato sempre più estesi.
Dmitrij PalagiCos’è un migrante? Uno pensa che la domanda sia scontata, ma non lo è affatto. Ogni definizione è legata ad un significato concordato. In particolare pensiamo al migrante come ad uno che è venuto a “casa nostra”. Da cittadino italiano nato all’estero spesso mi capita di sentirmi trattato da apolide, da straniero per tutti. Uno sguardo al documento di identità e la certezza dell’interlocutore di aver già capito tutto. Come se fosse una dicitura a rendere il migrante “altro”. Ma altro rispetto a cosa? Ciò che appartiene al singolo è suo per una questione di merito? Il caso ha voluto farci nascere nel lato “fortunato” del mondo, quello cresciuto nei “trenta gloriosi”, a danno di due terzi del globo, dove a svilupparsi è stata la povertà e l’ineguaglianza. Dal momento che il migrante non entra fisicamente nella nostra abitazione, dire che l’Italia è casa nostra è un’affermazione opinabile sul piano materiale. Riteniamo italiani dei milionari con residenza all’estero, la cui “casa” varia a seconda del sistema fiscale a loro più conveniente, così come reputiamo italiane aziende legate alla penisola solo sul piano del marketing.
Si replicherà: il migrante è colui che non condivide il nostro orizzonte culturale. Bene. Mi chiedo cosa l’orizzonte culturale di Salvini abbia in comune con il mio. Dice: “tifa Milan”. Davvero pensate che non ci siano tifosi milanisti fuori dal confine? E comunque io preferisco da tempo il rugby, da dopo il ritorno dei Viola in serie A. Quindi a quale cultura si devono adattare gli stranieri? A quella stabilita dalla Costituzione? Giusto. Però se è italiano solo chi rispetta la Costituzione, facciamo saltare la logica del diritto di nascita.
Altrimenti finiamo per dare per scontato il “noi”, affermando che un crimine commesso dallo straniero è peggio dello stesso commesso da un italiano. Non è peggiore, è più semplice da digerire e denunciare. Sul diverso ci si può sfogare, tanto non c’è nessuno a difenderlo.
Giochiamo sul noi. Descriviamo le qualità del noi, anzichè criminalizzare il presunto diverso. Finirà che ridurremo il tutto al livello normativo, dove il migrante è tale secondo questioni istituzionali e burocratiche, e nel quale il crimine è punito a prescindere dal colore della pelle o dal luogo di nascita (o almeno così dovrebbe essere).
Il resto è barbarie.
L’affermazione della Presidente Serracchiani in merito all’esistenza di diversi gradi di accettabilità sociale di un crimine è talmente banale che sarebbe stata relegata negli archivi delle agenzie di stampa se non vi si fosse voluto montare ad arte una polemica politica. Negare che nella popolazione vi siano sensibilità differenziate in materia significa mentire oppure non conoscere minimamente la società (“era straniero?”, “sarà stato un immigrato”, sono le più morbide delle reazioni che si possono quotidianamente ascoltare). I partiti di destra hanno abbracciato le dichiarazioni della Serracchiani non solo per dividere gli avversari ma anche per consolidare la propria presa sull’elettorato popolare. È infatti questo ad essere a più stretto contatto quotidiano con gli inconvenienti dell’immigrazione ed è nelle zone popolari, anche tra i cittadini più saldamente schierati a sinistra, che prosperano la diffidenza e l’avversione verso gli immigrati.
Le vie con cui la sinistra può affrontare il problema possono essere varie: fare come il Partito comunista francese di quarant’anni fa, i cui sindaci organizzavano marce intimidatorie contro le famiglie immigrate; oppure come Gordon Brown nella campagna elettorale del 2010, che snobbò come «bigoted» una pensionata laburista che si lamentava degli immigrati. In entrambi i casi i risultati sono stati il travaso di voti popolari all’estrema destra. Oppure si può riconoscere che la pressione sociale dell’immigrazione grava in particolare sulle classi deboli e che la pedagogia morale non è sufficiente a sradicare l’istintiva avversione per gli stranieri.
L’unica soluzione duratura può venire dall’investimento in servizi sociali e, in generale, nell’accoglienza: la costruzione di più alloggi popolari, il rilancio dell’occupazione, ma anche la costruzione di moschee. Strategia che darà frutti solidi ma la cui maturazione richiede tempo; frattanto, proprio il Friuli-Venezia Giulia fornisce un buon esempio delle problematiche contingenti. Con un tasso di accoglienza migranti quasi doppio rispetto alla media nazionale, la Regione affianca situazioni di eccellenza (Trieste) ad aree in cui l’eccessiva concentrazione di immigrati è stata definita dal Presidente del Consorzio italiano di solidarietà “bomba sociale a orologeria”. Se il sentimento popolare in quest’ultimo caso è facilmente intuibile, non meno ostico per un amministratore è far accettare all’elettorato l’uso di fondi pubblici per un’accoglienza di qualità ai rifugiati.
La favola secondo cui fare la lezioncina edificante e umanitaria sia sufficiente a portare i cittadini xenofobi (non solo di destra!) ad ammettere di aver sbagliato e a sostenere in massa la politica di accoglienza è, appunto, solo una favola. Ad essa può credere quel personale politico lontano dalla vita dei quartieri popolari, adagiato in un impiego comodo magari nel settore pubblico e che gode dell’auto-convincimento di gruppo in occasione dei dibattiti e delle iniziative d’area. Bisogna invece lavorare nelle contraddizioni reali e riconoscerle – come, forse paradossalmente, era riuscita a fare a destra la leader di Fratelli d’Italia quando, nel condannare il sequestro delle due donne rom a Follonica, aveva anche invitato a domandarsi perché un’azione simile fosse stata effettuata da un iscritto alla Cgil.
La condanna al pagamento di un’ammenda decisa dalla Cassazione nei confronti di un indiano di religione Sikh che girava con il coltello Kirpan, sacro per la sua cultura, non è di per sé criticabile. La legge può essere giusta o ingiusta, ma sicuramente va applicata dagli organismi competenti. Se così non fosse, chiunque potrebbe essere scagionato semplicemente adducendo una vaga motivazione culturale o religiosa al proprio misfatto.
È evidente che la nave dello Stato non può veleggiare in un oceano di tale relativismo e che servono delle norme comuni alle quali uniformarsi. Il problema sorge invece quando si deve discutere su che tipo di leggi vogliamo. Leggi che riflettono dei valori tradizionali cristallizzati o che cambiano a partire dalle istanze e dai bisogni di una società in trasformazione? Ed è qui che la Cassazione è andata oltre il proprio mandato, motivando la decisione con la necessità di ogni straniero di conformarsi ai valori del paese ospitante.
Si tratta di un’affermazione politica molto discutibile anche nei contenuti perché implicitamente postula un paradigma assimilazionista che ha già ampiamente dimostrato sotto il fascismo di essere un fallimento totale. Non possiamo invece perdere di vista che l’unica alternativa possibile è una società interculturale in cui si negoziano i significati, fondata più sul riconoscimento che sulla mera tolleranza. Quello del coltello Kirpan è un caso limite, ma si dovrebbe quantomeno tenere in considerazione che la vera sicurezza è possibile sono quando alle minoranze sono garantiti certi diritti e certe libertà, ovvero quando si riduce al minimo la tensione etnica e culturale.
L’assimilazione forzata invece produce esattamente l’effetto opposto. Le rigidità anche legislative e orientate alla conservazione, sono il riflesso di un clima culturale in cui le idee xenofobe si fanno largo nell’immaginario collettivo sotto forma di una invasione che può essere fermata solo schiacciando la cultura straniera che però, messa sotto pressione, in realtà si rafforza.
Se continueremo a pensare che lo straniero in quanto “ospite” debba avere meno diritti e più doveri di noi, si alimenterà un clima di reciproca diffidenza che rafforzerà ancora di più le barriere culturali e le frizioni. E questo è proprio ciò che vuole l’estrema destra xenofoba: più barriere, più incomprensioni; più incomprensioni più incidenti; più incidenti più paura; più paura più voti.
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