Guerra Civile e violenza nella storia contemporanea italiana
Lo scorso 22 Ottobre in Veneto e Lombardia si è tenuto un referendum consultivo sull’autonomia regionale promosso dagli esponenti della Lega Zaia e Maroni. Se il primo ha ottenuto un risultato ragguardevole portando alle urne quasi il 60% degli aventi diritto, il secondo è riuscito a convincere meno del 40% dei lombardi. Il carattere disomogeneo dell’ esito referendario si riflette anche sulle rivendicazioni di fondo che sono state sollevate già a poche ore di distanza dalla votazione.
Mentre il Presidente del Veneto, forte dell’ampio consenso popolare, spiazzando un po’ tutti, si è detto deciso a voler intraprendere lo spinoso e complesso iter politico-legislativo che porta al riconoscimento di regione a statuto speciale, il suo omologo lombardo si accontenterebbe che la sua regione, in quanto virtuosa, possa godere di maggiori poteri, sopratutto in materia fiscale. Pur nella sua ambivalenza e ambiguità, l’esito referendario sembra ancora una volta confermare la rilevanza politica del problema dell’autonomia regionale e locale in Italia.
Le consultazioni referendarie lombarde e venete si inseriscono nella lunga lista di sterili provocazioni a marchio leghista che include anche un paio di pseudo-dichiarazioni d’indipendenza. Questo è certo e indiscutibile. Ma il fatto della futilità del singolo episodio non deve farci ignorare il fenomeno che gli sta sotto. Il perimetro di forze del centrosinistra della Seconda Repubblica, dal PD all’estrema sinistra, ha trovato nel leghismo un comodo alibi per ignorare o per guardare con un malcelato senso di superiorità morale ciò che sta a Nord dell’Emilia Romagna, le sue difficoltà e le sue ferite aperte. Un atteggiamento che ha portato alla situazione attuale, con alcune delle regioni più grandi d’Italia saldamente in mano ad un partito di estrema destra, in cui, a “rosatellum” in vigore, nessun partito di centrosinistra riuscirebbe a conquistare nemmeno un singolo collegio.
Che “federalismo” ed “autonomia” come li intendono la Lega significhino egoismo e chiusura è un altro fatto, come è un fatto che questo discorso ormai goda di una certa egemonia. Incontrastata, perché se la destra non ha nessun interesse a contrastarlo la sinistra italiana quando si parla di assetto dello Stato non sa che fare o si chiude per reazione in un centralismo aprioristico, un riflesso pavloviano che non è che un altro successo del ripugnante discorso leghista. Dopo la breve stagione di decentramento iniziata con la poco accorta riforma del titolo V del 2001 – motivata più dall‘esterofilia che da valutazioni di merito – la smania centralistica del centrosinistra è passata per lo svuotamento dei comuni e l’abolizione de facto delle circoscrizioni, per culminare nello scorso governo Renzi nella mutilazione delle province e nel malaugurato tentativo di cancellare dalla Costituzione le province e di rendere le regioni gusci vuoti amministrativi. Tutte mosse che – eccezion fatta per le disposizioni della Renzi-Boschi, fortunatamente cassate dal referendum dello scorso anno – si sono tradotte in un ripiegamento dello Stato e in un abbandono delle aree periferiche delle città e del Paese che hanno peggiorato la vita di tutti. D’altro canto bisogna riconoscere che in Italia le regioni più fragili non sembra abbiano beneficiato granché della solidarietà e del denaro delle regioni più forti, e abbandonare una retorica pseudosolidaristica palesemente contraddetta dai fatti: gli squilibri sono gli stessi che il Paese si trascina dietro dall’Unità, forse sono in alcuni casi pure peggiorati. D’altronde la “solidarietà nazionale” si è chiamata negli anni Cassa del Mezzogiorno o ILVA o polo di Gioia Tauro, o altre decine di occasioni di spoliazione e di devastazione ambientale e sociale.
Non deve essere per forza così. La dicotomia tra autonomia nel segno della chiusura e centralismo è una falsa dicotomia. Si può smontare la politica leghista superandola con un federalismo complessivo di segno radicalmente democratico, che dia decisionalità e strumenti finanziari dai quartieri alle regioni e che punti agli investimenti e allo sfruttamento delle potenzialità locali. Peccato che la sinistra pensi ad altro.
Il referendum per la richiesta di maggiore autonomia di Veneto e Lombardia è la conseguenza di ciò che innesca uno Stato fallito che esercita regimi fiscali vessatori verso le regioni più industrializzate. È evidente che chi detiene i mezzi di produzione abbia forti interessi in ballo e voglia godere di regimi fiscali sostenibili, anche utilizzando poi il ricatto della delocalizzazione. La stretta dei conti pubblici invece tende a scaricarsi in sempre più tasse e lo scontro con il mondo produttivo diventa inevitabile.
Resta il dato di fatto politico, cioè la contraddizione di una Lega Nord nata al Nord ma che per sopravvivere ha bisogno del Sud e di una credibilità come forza politica moderata. Oggi viene sventolata la macchietta dell’autonomia da un partito che prende in giro la propria base elettorale: un giorno invoca l’autonomia e l’altro cambia nientemeno che il nome, un giorno invoca l’uscita dell’euro e l’altro ritratta per non perdere troppi voti.
Aspettiamo l’ennesima alleanza elettorale con le forze moderate dell’Armata Brancaleone berlusconiana per porre definitivamente la pietra tombale sulla Lega (Nord).
A non essere residenti nelle due regioni italiane interessate dal referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto c’è evidentemente molto da capire, anche se onestamente poco è l’interesse. Gli esisti elettorali appaiono sempre meno legati a progettualità a confronto, mentre i flussi paiono seguire sentimenti diffusi e poco strutturati. La Lega (non più Nord) rivendica la mossa, come rassicurante rispetto alla sua deriva nera nazionale (denunciata anche dal povero e rottamato Bossi). Berlusconi rivendica l’alleanza con Zaia e Maroni, per marginalizzare Salvini. Il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle escono devastati dalla loro incapacità di tenere una linea. Il fronte degli astenuti (a cui vanno ascritte la quasi totalità delle forze di sinistra, con poche eccezione) può rivendicare cifre degne, nonostante il successo indubbio di partecipazione per i promotori.
Come sempre, quando non ci sono obiettivi precisi, in politica possono vincere tutti. La partita in gioco è quella per il prossimo governo, con un’indifferenza diffusa e molta voglia di votare contro (Renzi, la politica, il Parlamento, la casta, et cetera).
Lo Stato nazionale è in crisi, ma lo sono in realtà tutti i livelli istituzionali (basta pensare all’affluenza alle ultime amministrative, comprendendo anche l’ultimo decennio). I referendum potevano essere un’occasione per una riflessione alta sulla dimensione politica delle varie forze nazionali. Appare certo però che andrà persa.
Sono riusciti a ignorare il referendum sull’acqua bene comune, figuriamoci se Veneto e Lombardia non si ritroveranno due giunte regionali semplicemente più forti nei loro rapporti di forza, senza nessun significativo cambiamento (se non forse nella composizione delle liste).
La riforma costituzionale Renzi-Boschi avrebbe soppresso la legislazione concorrente Stato-Regioni e istituito la clausola di supremazia del primo nei confronti delle seconde, in nome de «la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Appare quindi logico che con la vittoria del No, trainato da movimenti antistato quali M5s e Lega, abbiano ripreso forza le spinte centripete. L’egoismo territoriale di due regioni ricche ha avuto senza dubbio un forte peso, ma non è il solo ingrediente: ad esempio nella città di Milano l’affluenza risulta essere stata considerevolmente inferiore che nel resto della Lombardia. Il Veneto, meno ricco del suo vicino occidentale, ha fatto registrare dati sensibilmente più alti.
La simpatia con cui il clero veneto ha guardato al referendum può spiegarne le radici profonde: l’avversione verso l’unità nazionale italiana e un confuso rimpianto per l’Austria-Ungheria (il professor Miglio dichiarò a suo tempo di avere nostalgie asburgiche). L’anomalia veneta è tale anche nella Lega: alle elezioni regionali 2015 la Lista Zaia ottenne più voti delle camicie verdi; un fatto di assoluto rilievo ma che all’epoca fu derubricato dal clamore di chi era impegnato a dire che “Renzi” aveva perso (?) le consultazioni. Il ruolo di Zaia, e i sentimenti ai quali dà voce, può porsi come controcanto sia del nazionalista Salvini sia del più moderato Maroni.
D’altro canto le pulsioni disgregatrici, all’opera in varie zone d’Europa da molti anni, sono state rinfocolate dall’impotenza degli Stati-nazione di fronte alle trasformazioni sociali provocate dal capitale globalizzato. Gli Stati riproducono la propria inanità in sede Ue: alcuni bluffando con vuoti ricatti (Polonia, Ungheria, ecc.), altri evitando paurosamente di scoprire il bluff (Francia, Germania, ecc.). In questa duplice assenza si inseriscono i rinati regionalismi.
Seguendo questo ragionamento, e l’esempio francese, i deputati Morassut e Ranucci (Pd) hanno proposto già dal 2015 la risuddivisione dell’Italia in dodici regioni. In realtà, al di là del trucco ottico (di cui abbiamo già avuto abbastanza per quanto riguarda le province), non si capisce come il nuovo assetto dovrebbe risolvere il problema delle competenze e capacità dell’autorità pubblica.
Se lo Stato-nazione non c’è più e lo Stato-Europa non c’è ancora, la via è proseguire verso la realizzazione del non-ancora: solo in esso potrebbero trovare spazio, anche a cavallo dei precedenti confini nazionali, nuove regioni la cui effettiva autonomia amministrativa sarebbe garantita dal potere di intervento (economico e legislativo) dello Stato centrale.
Il referendum per l’autonomia mostra un paese più diviso dal punto di vista del legame solidaristico piuttosto che su basi “etniche”. Il voto massiccio per l’autonomia è il frutto di una cultura individualista ed egoistica piuttosto che un attaccamento a una storia condivisa a livello locale o regionale. Difficile leggere nella consultazione altro se non un mezzo politico per fare pressioni sul governo al fine di ottenere un regime fiscale più favorevole per le già ricche Veneto e Lombardia. Anche la mitologia celtica e il rito dell’ampolla con l’acqua del Po’ si sono dimostrati vuoti simulacri che appaiono in progressivo abbandono. Quantomeno ora è tutto più trasparente: it’s the economy, stupid. Si tratta di un problema molto diverso da quelli che attanagliavano la Repubblica Italiana ai suoi albori quando ha istituito le Regioni a Statuto Speciale. E mentre Zaia rivendica anche per il Veneto questo status, occorrerebbe forse invece fare un ragionamento opposto e chiedersi se questo club esclusivo abbia ancora ragione di esistere. Eliminare i privilegi dello Statuto Speciale sarebbe giusto sia nel caso del Trenino Alto Adige, della Valle d’Aosta e del Friuli Venezia Giulia le cui problematiche di tipo culturale e linguistico non sembrano essere più così rilevanti, sia nel caso delle più povere Sicilia e Sardegna dove lo strumento non ha aiutato la crescita economica ma anzi amplificato li sprechi.
Le spinte autonomiste al Nord, egemonizzate politicamente dalla Lega, si scontrano del resto con una ambiguità di fondo. Deve far riflettere il fatto che Salvini abbia recentemente tolto dal simbolo della Lega il “Nord”. L’ambizione del Segretario del Carroccio appare sempre più quella di voler creare un partito nazionalista che sappia parlare all’intera Italia tramite le parole d’ordine di sicurezza e lotta all’immigrazione clandestina. Abbiamo così uno strappo difficile da ricucire fra una lega degli enti locali che, pur in discontinuità con la retorica di Bossi, conduce una battaglia autonomista e una lega nazionale che si ispira al modello del Front National. Quale delle due è la Lega peggiore? Credo che l’unica risposta possibile sia: ” sono entrambe peggiori!”
Immagine liberamente tratta da www.linkiesta.it
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