Elezioni statunitensi: declino e stallo? (A dieci mani)
Quando ci si riferisce agli Stati Uniti lo si fa spesso in termini altisonanti quali “la più longeva democrazia del mondo”, la quale troverebbe le ragioni della sua sopravvivenza proprio nella sua capacità di autorigenerarsi spontaneamente con la sola forza della dialettica.
Questa narrazione si scontra con tutte le analisi di coloro che hanno intravisto una decadenza dell’Impero americano che, come ogni altro impero del passato, è destinato a fare il proprio tempo, lasciando spazio a nuove potenze. Le ultime elezioni presidenziali del post-Obama sono un esempio della difficoltà di questo impero nell’esercitare le proprie capacità di autorigenerazione. La crisi economica e sociale ininterrotta, riducendo all’osso i margini di scelta elettorale, ha messo in crisi intellettuale anche il fior fiore della cultura antagonista. Gli esempi portati da un Noam Chomsky adeguatosi al voto per Hillary Rodham Clinton come voto antifascista e di Slavoj Žižek che in una delle sue celebri giravolte postmoderniste è riuscito ad appoggiare Trump, potrebbero essere sintomatici di uno stallo nel pensiero occidentale che, anche nei suoi elementi più radicali, fatica a metabolizzare l’idea di un’effettiva lacuna democratica nel paese che continua a costituire il riferimento culturale imprescindibile.
Occorreranno anni ed importanti studi sui flussi elettorali per capire cosa è avvenuto negli Stati Uniti non soltanto martedì sera ma negli ultimi anni.
Un primo dato che appare evidente a chi vive in Italia e dall’Italia ha seguito questa campagna elettorale è la sconfitta di quei settori più liberomercatisti che avevano appoggiato il Partito Democratico (nella versione moderatissima della Clinton e non in quella, di sinistra ma nemmeno eccessivamente, di Sanders) e che erano stati esaltati oltre ogni misura e decenza dai media internazionali.
A vincere è stata invece la chiusura rappresentata da Trump (anche se sarà da vedere quanto poi realmente verrà portata avanti) ai grandi accordi internazionali ed in primo luogo al TPP (che pure nasce in funzione anticinese, vera ossessione del neopresidente repubblicano).
L’altro aspetto sul quale sarà interessante vedere se alle parole, piuttosto decise, di Trump, seguiranno i fatti è rappresentato dalla politica estera. La speranza per chi è amante della pace e del multipolarismo è che il biondissimo miliardario sessista sia conseguente con quanto ha lungamente affermato e investa meno nella NATO (politicamente ed economicamente) cercando un modus vivendi più rispettoso nei confronti in primo luogo della Russia e del mondo arabo.
Chi ha in questi mesi auspicato, a sinistra, la vittoria della Clinton non ha infatti tenuto conto della politica estera guerrafondaia, grondante letteralmente sangue, portata avanti dai democratici e dalla stessa Killary in prima persona.
Poco da dire invece sulla politica economica interna: sarà un massacro. Le tiepidissime riforme obamiane sulla sanità ed ogni altro investimento sul welfare sembrano avere un destino già segnato: chissà cosa penseranno tra qualche mese i tanti bianchi impoveriti che hanno votato Trump.
Tra i tanti commenti quello indubbiamente più contraddittorio è proprio quello più assolutorio verso il sistema imperialista democratico, il cui nucleo, anche se in piena decadenza, continua ad essere rappresentato dagli Stati Uniti d’America. In fondo, la vittoria di Donald Trump sarebbe la vittoria della democrazia americana, in cui il popolo ha potuto votare con la pancia per il candidato che più lo rappresenta. Nulla di più convincente, ma nulla di più falso. Gli Stati Uniti continuano ad essere l’oligarchia industriale e finanziaria che ha scritto il Federalist e ne ha vergato la Costituzione, legittimando schiavismo e altre oscenità. Il popolo c’entra solo in funzione di sostegno strumentale a tali interessi ed è per questo che il progetto di rilancio economico-sociale di Trump è nato morto. Il tycoon, nemmeno cavalcando un neoprotezionismo in alleanza con la Gran Bretagna (altro impero, ormai decaduto da un pezzo), può pensare di interrompere la divisione internazionale del lavoro e invertire il ciclo che vede inesorabilmente deindustrializzarsi i paesi occidentali.
Purtroppo, l’unica alternativa per l’impero decadente continua ad essere l’aggressività militare e c’è da scommetterci che il neoisolazionismo trumpiano vacillerà non poco, a partire dall’America Latina già in piena fase di normalizzazione imperialista e dal Medio Oriente dove il conflitto inevitabilmente si focalizzerà contro la rivoluzione khomeinista.
Infine, si apre un’incognita non da poco: con la normalizzazione dei rapporti russo-americani e l’inasprirsi dello scontro economico diretto con la Cina, l’Europa diventerà un’appendice superflua dell’imperialismo americano altamente instabile. C’è da scommetterci che il nuovo vento dei populismi, che con Trump, e per lo meno in Occidente, hanno chiaramente un’impronta di destra, soffierà in Europa sfruttando al meglio il profondo malessere sociale generato dalla crisi per imporsi definitivamente nella fase declinante della democrazia. La vera incognita deriva dall’analisi degli imperialismi, poiché se a partorire il nazismo sono stati i nazionalismi di nazioni arretrate e inesorabilmente indietro nella corsa all’accaparramento delle risorse, oggi è l’UE ad essere il vero imperialismo in difficoltà e dunque pericoloso.
Come durante la Seconda Guerra mondiale l’imperialismo sta mutando faccia, ma sono i subimperialismi che mostreranno la vera brutalità del sistema capitalista. In questo senso occorrerà monitorare attentamente gli sviluppi della Nato, o di ciò che potrebbe sostituirla nella militarizzazione europea che c’è da scommetterci aumenterà.
Forse nel mutamento dell’uomo all’interno della società occidentale si può ascrivere la percezione di sé come spettatore giudicante, anziché soggetto agente nella storia. La sconfitta di Hillary Clinton riempie di gioia chi prova avversione verso il suo operato nei decenni precedenti (e nel recente passato).
In politica estera per noi sarà meglio, sostiene in media l’europeo “comune”. In realtà il rischio di accelerazione della militarizzazione nel vecchio continente pare assumere maggiore consistenza (secondo il principio per cui ogni membro della Nato dovrebbe investire il 2% del PIL in spese militari). Cosa accadrà dopo il 20 gennaio è da vedersi, ma stupisce con quanta leggerezza i bianchi, cristiani (credenti o meno), eterosessuali, acculturati, informati, commentino le elezioni degli USA, quasi godendo del fatto che parte dell’elettorato democratico (progressista, popolare) sia rimasto a casa, assuefatto dalle descrizioni tragicomiche di un personaggio come Trump.Fiumi di inchiostro si sono posati sulle pagine dando forma alla parola “populismo”. Comprenderebbe Sanders e Trump, la Brexit, Syriza, Podemos e tutto ciò che non è conforme alla narrazione del sistema mediatico, alla realtà per come ci viene descritta dalle principale testate giornalistiche.
Il “populismo” non esiste a prescindere, o almeno è quanto cercherò di argomentare nel futuro sulle pagine del Becco: non c’è nessuna vendetta contro l’ottimismo della globalizzazione degli anni ’90. C’è una sconfitta del movimento a cui ci opponevamo nel 2001 (sotto l’etichetta mediatica di no-global)? Certo, ma si registra dopo la “nostra” sconfitta. La dottrina di Reagan è stata sconfitta da destra, così come Berlusconi è caduto per aprire la strada alle politiche del governo Monti. Il sistema perde, ma rimane l’unico sistema: tenterà di ripensarsi nuovamente, facilitato dall’assenza di alternative.
Una soluzione di sinistra? Provare a pensare che non c’è da votare in un reality, quindi non importa giudicare in modo univoco, ma è necessario operare, per quanto ci è possibile, per il mutamento dello stato di cose presenti.
Un commento dell’autore sul tema è già stato pubblicato (qui) ed un secondo pezzo è seguito un paio di giorni dopo (qui).
Difficile ancora stimare l’entità della frattura che la vittoria di Trump ha prodotto sulla scena politica mondiale. Ci si avvia verso una trasformazione epocale, verso una società post-liberale segnata da un rigetto da destra della globalizzazione selvaggia e da un rifiuto delle elite economico-finanziarie, oppure stiamo assistendo a un clownesco fuoco di paglia, destinato a spegnersi in breve tempo? Si sta aprendo realmente una faglia nel sistema o siamo destinati a vivere per sempre la “fine della storia”?
Quel che è certo è che Trump incarna alla perfezione il rifiuto e la voglia di rivalsa di tutte quelle fasce sociali lasciate indietro e impoverite da oltre trenta anni di politiche neoliberiste. E che non hanno trovato nella sinistra un possibile antidoto al depauperamento economico e sociale né alla vertiginosa crescita globale delle disuguaglianze.
Ma d’altronde come avrebbero potuto trovarlo? Le poche misure di Obama per cercare di contenere i tagli al welfare e di salvare quel poco che resta del tessuto produttivo statunitense, si scontrano con la dura realtà dei dati economici che parlano di una devastante diminuzione dei salari e una crescita esponenziale delle diseguaglianze, facendo degli Stati Uniti uno dei paesi in cui il ceto medio si è maggiormente impoverito dalla crisi del 2007 a oggi. Nel corso degli otto anni di mandato dell’ex Presidente insomma, gli unici a beneficiare della crescita in termini di PIL sono stati solo i più ricchi.
Non solo bastonate, ma anche derise da una sinistra da salotto snob e boriosa, per aver votato l’unico candidato che abbia parlato espressamente dei loro problemi, le classi subalterne bianche hanno scelto di affidarsi a Trump compiendo così una scelta elettorale di protesta, ma razionale e comprensibile. Scelta fatta senza oltretutto l’avvallo di quello straordinario creatore di opinioni fittizie che è (era?) il sistema mass-mediatico, quasi tutto schierato a favore di Hillary Clinton.
Proprio quest’ultima ha fallito, non certo per la stupidità degli elettori, ma per non essere riuscita a mobilitare il voto delle minoranze etniche. Ma con quale entusiasmo un nero e un ispanico, relegati molto spesso alla base della piramide sociale, andrebbero a votare un candidato molto più vicino agli interessi di Wall Street che non a quelli delle classi subalterne?
L’elezione di Trump non promette nulla di buono, nemmeno per quell’ampio segmento della working class che l’ha votato, ma puntare il dito contro le masse impoverite, ridotte a plebi incapaci di scrivere il loro destino e farsi protagoniste di un processo storico di cambiamento, non è solo un errore strategico o di analisi, bensì è un crimine ideologico tout court.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.