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17 Dicembre 2018

I cento anni dalla fine della Grande Guerra: occasione per una cerimonia vuota?

Dieci Mani A Dieci Mani

In Europa le celebrazioni per il centenario della conclusione della guerra mondiale sono state composte di due filoni: il tributo ai sacrifici della popolazione mobilitata, al fronte, nelle retrovie o nel fronte interno, e il ribadimento della scelta europeista come via che ha garantito e sola potrà garantire la pace nel continente.


Questa visione è giunta alla sua massima espressione l’11 novembre a Parigi, dove Macron e Trump si sono fatti portabandiera di due visioni opposte: la prima, tesa a rilanciare l’integrazione europea e a rigettare i nazionalismi; la seconda, intenta a confermare il carattere semi-coloniale dell’imperialismo americano in Europa.


Piergiorgio Desantis

È rivoltante e di pessima qualità la retorica che trasuda la ricorrenza del centenario della fine della Prima guerra mondiale in Italia. Continua ininterrotta l’enfasi per la storia inaugurata prima da Ciampi, poi approfondita da Napolitano ed ora proseguita da Mattarella.

Da parte delle istituzioni non c’è neanche per sbaglio una visione critica di quella fase, una contestualizzazione degli accadimenti avvenuti e il ruolo svolto dall’Italia in quegli anni.

Sono addirittura ridicoli, per non dire tragici, i riferimenti alla vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Infatti, se quella vittoria (presunta o vera), da D’Annunzio definita mutilata, non si collega alle conseguenze materiali sugli italiani e non solo in termini di morti e mutilati e alla conseguente nascita e presa del potere del Fascismo appena successiva, si perde davvero il senso della storia.

Ovviamente la destra nazionalista e nostalgica (come sempre svolge il suo ruolo) si è buttata a rivendicare la data del 4 novembre quale data fondativa e non divisiva della storia italiana. A sinistra, ancora una volta, invece un vuoto imbarazzante o solo pochi cenni. Riprendere in mano i libri di storia, rimettere su corsi di formazione storica e politica, dovrebbero essere obiettivi immediati per chi vuol ricostruire qualcosa di duraturo a sinistra, ricordando che la storia continua a essere terreno di scontro e di lotta.


 Dmitrij Palagi

I conflitti mondiali fanno parte della costruzione delle istituzioni europee: una retorica variamente declinata nel corso del Novecento e mutata radicalmente nel XXI secolo. La crisi economica ha incrinato una narrazione di unità e progresso: turismo senza passaporto, opportunità di lavoro o studio in paesi diversi, scambi linguistici, occasioni di commercio. Tutto grazie alla pace. Il mercato senza politica ideologica. La crisi del sistema economico ha invece travolto tanto le consolidate istituzioni nazionali, quando le nuove entità di governo del vecchio continente.

Usare la storia per confermarsi, anziché per mettersi in discussione è un errore, ma sembra essere una regola imprescindibile per chi agisce nel mondo politico. Così sui principali organi di informazione la cerimonia di Parigi è apparsa una sfida di Macron (e Merkel) a Trump (e ai suoi estimatori europei).

Recentemente sono usciti in italiano due studi interessanti. “Il New Deal” di Kiran Klaus Patel e “Il piano Marshall” di Benn Steil. Potrebbero essere occasioni per un dibattito pubblico, così come le operazioni di “storia mondiale” uscite su Francia e Italia. Sull’uso pubblico della storia il mondo accademico si interroga molto, mentre quello politico guarda alle cattedre solo per la composizione delle liste elettorali. Non solo in Italia.

Chiunque “usi” la storia per un fine diverso rispetto a quello di mettersi in discussione, farebbe invece bene a tenersi lontano, comprese quelle istituzioni in crisi che cercano di difendersi rompendo ogni valore condiviso, facendolo proprio, anziché sapendolo imporre nel senso diffuso.

Se non può esserci pane e lavoro senza pace, non può esserci vera pace senza pane e lavoro.


Jacopo Vannucchi

In concomitanza con il centenario della fine della Grande guerra il Presidente francese Macron è tornato a investire nuovamente sull’idea di esercito europeo, affermando la necessità di rendersi indipendenti dagli Stati Uniti e confrontarsi autonomamente con Russia e Cina.

Se la Nato, per bocca del suo Segretario generale, ha detto che non vede la necessità di duplicare la struttura di comando transatlantica, Trump è stato più diretto, definendo l’ipotesi “offensiva” e chiedendo che i Paesi europei aumentino il proprio contributo finanziario al Patto atlantico. Viceversa un morbido elogio all’iniziativa francese è venuto da Putin: questi naturalmente vede di buon occhio un’Europa «indipendente, autosufficiente e sovrana nel settore della difesa e della sicurezza», con la quale i rapporti bilaterali sarebbero certamente più amichevoli che con gli Stati Uniti o con la Nato.

Un punto debole della Iniziativa europea di intervento proposta da Macron – ed è il motivo accampato dal governo italiano per non parteciparvi – è la sua autonomia dalla già vigente Pesco e dalle strutture comunitarie.

Questa autonomia, però, è resa necessaria dal fatto che le due Europe risultano difficilmente componibili nell’immediato: quella dell’Ovest, che per bocca di Macron (ma anche di Mattarella) definisce il nazionalismo come «il tradimento del patriottismo»; quella dell’Est, in cui, nello stesso 11 novembre, il corteo ufficiale del governo polacco per il centenario dell’indipendenza nazionale si è fatto seguire da un corteo “ufficioso” di decine di migliaia di squadristi che inneggiavano alla pulizia razziale e bruciavano la bandiera europea. (Tusk, per opporsi, non ha trovato di meglio che definire “nuovi bolscevichi” la destra radicale che governa il Paese.)

Nel dicembre 1918, con lo slogan “vote Labour and no more war”, i laburisti divennero il secondo partito del Regno Unito scalzando definitivamente il Partito liberale. Oggi i socialisti europei hanno ricordato il centenario dell’armistizio con le parole “per la pace, per l’Europa”. Al di là delle contrattazioni tra le varie cancellerie, è evidente però che un’Europa priva di trincee e di reticolati può essere conservata soltanto se l’integrazione verrà costruita attraverso un forte movimento popolare.


Alessandro Zabban

La cerimonia del centenario dalla fine della Prima Guerra Mondiale poteva essere l’occasione per l’Europa, intesa soprattutto a partire dalle sue istituzioni politiche, di ripensare il suo ruolo e rivedere il suo progetto d’azione. Si è invece concluso con un vuoto cerimoniale in cui si è ribadito come al solito che l’Unione Europea ha avuto il grande merito di impedire il riaccendersi di conflitti sul continente. Tutte cose trite e ritrite che sviano dal reale problema che il nostro continente si trova ad affrontare che è quello della redistribuzione del reddito e della giustizia sociale.

Se veramente il populismo di oggi flirta con un nazionalismo simile a quello che ha scatenato la Grande Guerra, allora sarebbe il caso di disinnescare il malcontento che porta la gente a votare partiti di estrema destra. Se invece la cerimonia diventa solo autocelebrativa sulle bontà dell’Unione Europea e di quanto sono cattivi i populisti l’esito non può essere che quello di assistere a forme di contro-commemorazione in cui, come in Italia, invece che interrogarci sulla follia di quella inutile strage si celebra la vittoria come momento di catarsi nazionale.


Immagine di copertina liberamente ripresa da wikipedia.org

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Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/125709-dieci-mani.html

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