In ricordo di Ugo ragionier Fantozzi
Morto lo scorso 3 luglio a Roma, il genovese Paolo Villaggio è stato sicuramente uno dei più amati e apprezzati comici italiani. Autore e attore, ha ideato e indossato molte maschere di successo, dagli esordi in RAI con lo stravagante e autoritario Professor Kranz fino alla consacrazione definitiva con il servile e inetto ragionier Ugo Fantozzi. Il suo peculiare mix di cinismo amaro, ironia surreale e tagliente sarcasmo ha fatto scuola restituendoci una collezione di scenette cabarettistiche che hanno avuto l’ambizione di provare a raccontarci contraddizioni e caratteristiche dell’Italia dalla fine degli anni sessanta in poi.
Fu vera gloria? Sulla sua controversa figura il 10 mani di questa settimana.
Che l’opera di Villaggio divida ancora oggi credo sia il più bel testamento ad un artista del suo calibro, che – a mio parere – ha cercato sempre e comunque di non disciogliere la tragica realtà nel marasma populistico della “pancia del Paese” o dell’”italiano medio”.
Prendiamo ad esempio l’epopea di Fantozzi, o almeno i primi due Fantozzi, i film rilevanti. Il tragicomico ragionier Ugo di Villaggio è stato più o meno recentemente accusato di essere un cattivo modello di barbarie culturale e sudditanza psicologica al potere, magari perché restio a sottomettersi agli istruttivi film rivoluzionari propinati dal suo sotto-padron-dirigente professor Guidobaldo Maria Riccardelli; da un altro lato si è diffusa una certa lettura “cult” di Fantozzi & co. che fa dello sfortunato impiegato della Megaditta un simbolo di una certa italianità grezza e magari ostentatamente ignorante ma per questo tanto più casereccia e genuina. Insomma, l’esatto contario del messaggio alquanto deprimente dell’ironia (ripetiamocelo, ironia, sono film che comunicano tramite un significante comico!) così tipica della genialità di Villaggio.
Infatti, guardando con un minimo di attenzione in più anche solo i due canonici Fantozzi – i sequel successivi sono stanche riproposizioni – di cui sopra, anche un occhio inesperto è in grado di cogliere la triste ironia nemmeno troppo sottointesa ad un’emanazione del padronato (per quanto professorale) che proprio grazie alla sua privilegiata posizione sociale è in grado di apprezzare il rivoluzionario cinema sovietico, tanto da imporlo dispoticamente ad una “massa proletaria” che, nella sua alienazione, non è nemmeno in grado di comprenderne i titoli e che pare più interessata ai filmacci industriali dell’epoca, fino all’inevitabilmente autolesionistica rivolta. Che “la gente”, in questo nostro 2017, continui a citare il giudizio di Fantozzi sull’irreale Corazzata “Kotiomkin” riferendosi alla reale – e decisamente migliore – Corazzata Potemkin di Ėjzenštejn non è che un testamento alla genialità della satira che Villaggio fa dell’abbruttimento della gente comune nelle nostre società nominalmente illuminate; una satira corrosiva e che non fa sconti a niente e nessuno, ma sempre condotta con umanità e coscienza dello status di vittime dei tanti Fantozzi suoi (e nostri) contemporanei.
Che dire infine della routine mattutina del povero ragioniere, costretto ad una sovrumana peripezia per conciliare sonno e orari di lavoro? Spunti di riflessione interessanti, a patto che non li si travisi, provenienti da un epoca che molti ventenni e trentenni di ora vedono come una sorta di età dell’oro – si sprecano le vignette sul posto fisso di Fantozzi – ma che in realtà già covava nei suoi mille anfratti bui tutti i mostri dell’oggi.
Di Paolo Villaggio si possono avere pareri discordanti ed è giusto e naturale, visto il personaggio. Ciò che non si può mettere in discussione è l’intelligenza di uno scrittore che riuscì a tramutare in comicità popolare il modus vivendi degli anni Ottanta creando delle maschere divenute celebri, su tutte quella del ragionier Ugo Fantozzi.
La sua infelicità cronica che traspariva dagli sguardi seri di un attore comico atipico era il detonatore della sua capacità artistica. Villaggio aveva uno spirito anarchico e la sua breve esperienza di impiegato alla Cosider, dove si trovò a diretto contatto con l’aziendalismo rampante, lo mise davanti ad una realtà tragicomica, facilmente tramutabile in cultura di massa. Così Villaggio riuscì a vedere quel piccolo spaccato di mondo da un’altra angolazione tramutando la critica in comicità. Il suo sarcasmo però era tutt’altro che elitario, riusciva anzi a condividere le gioie minute della vita di tutti i giorni dell’italiano medio rappresentandone in forma amplificata le sfortune. Questa operazione non poteva che attecchire nella cultura di massa del paese.
Il sostrato culturale che Villaggio raccolse con il personaggio del ragionier Ugo Fantozzi è fortemente rappresentativo della cultura stessa di questo paese, di questa società e di questa epoca storica. Infatti la nostra società capitalista ha una fortissima capacità di conformare atteggiamenti e uniformare il pensiero creando in maniera più naturale possibile l’adeguamento a un sistema irrazionale. Villaggio, in una straordinaria autocritica sociale e di se stesso, mostrò come infondo vi sia la disponibilità ad accettare le umiliazioni più grandi pur di avere un minimo benessere, lui stesso faceva il “giullare” e aveva tremende difficoltà quando si trattava di ritornare a prendersi sul serio. La più grande capacità di Villaggio è probabilmente legata alle sue intuizioni sull’italiano medio che riuscivano facili poiché egli vi si identificava con grande facilità. Anche in politica si riflette questo suo sentimento che lo ha condotto da comunista alla vicinanza al Movimento 5 stelle. La maschera di Ugo Fantozzi si è appiccicata così tanto al suo interprete da essere nata, vissuta e morta con lui.
La morte di Paolo Villaggio si aggiunge alla serie di “quando muore uno famoso” in modo peculiare. Pochissimi hanno avuto la sconsideratezza di ignorare o deridere l’importanza di una figura rimasta impressa nell’immaginario condiviso della nazione, mentre larga parte del dibattito si è concentrata o sul personaggio di Fantozzi o sull’impegno dell’attore nelle file di Democrazia Proletaria.
Claudio Giunta in prima pagina sulla Domenica del Sole 24 Ore ha scritto della “protesta della natura, del corpo contro i diktat di una cultura che né si comprende né si apprezza, anche se si simula di farlo”. Alcuni hanno scritto [e lo facciamo anche qui NDR] sulla differenza imprescindibile tra la Corazzata Kotiomkin e l’originale Potëmkin, tesa a valorizzare il vero valore del film di Ėjzenštejn (anche se quanti si sono resi conto di questo dettaglio?).
La discussione rischia di diventare infinita ma di girare a vuoto se non si tengono separati tre aspetti.
1) La biografia di una persona complessa, come ogni singolo essere umano, con le sue uscite e le sue scelte, fortemente influenzate nel tempo dal successo che Paolo Villaggio ha ottenuto.
2) Le intenzioni e le finalità delle opere di Paolo Villaggio, con gli obiettivi rivendicati e dichiarati.
3) I risultati ottenuti “dalle opere” di Paolo Villaggio. Il modo in cui il suo lavoro è diventato patrimonio comune del panorama culturale italiano, con le diverse letture, i diversi gradi di profondità interpretativa.
Sono poche le persone diventate (loro malgrado?) simbolo di molte cose, anche in contraddizione tra loro. Questo riconoscimento è imprescindibile, anche per chi ha dei dubbi sull’utilità del ciclo di Fantozzi rispetto al senso comune. Esistono contesti a tratti impermeabili a critiche sottili, mentre una figura pubblica appartiene relativamente poco a se stessa e quindi non sempre riesce a veicolare le proprie idee grazie alla propria notorietà, finendo per introiettare quello che ci si aspetta da lui.
A un’analisi superficiale, magari influenzata dagli ultimi film del personaggio o da altri film comici interpretati da Paolo Villaggio, il rag. Ugo Fantozzi potrebbe sembrare una semplice maschera comica costruita sul tipo dello sfortunato cronico.
Contestualizzando Fantozzi nel suo scenario produttivo e sociale di riferimento se ne può cogliere invece tutta la carica analitica: impiegato servile, sistematicamente frustrato e inetto in ogni sua intrapresa (lavorativa, sentimentale, sportiva…), infelice nella famiglia, «prototipo del tapino, quintessenza della nullità» secondo il suo stesso creatore, Fantozzi è l’uomo che «ingoia la nostra stanca civiltà», come nei versi gucciniani di “Dio è morto”.
La denuncia del totalitarismo consumista, che aveva in Pasolini un cantore epico alla ricerca di eroi contemporanei contro il potere del nuovo fascismo, ha trovato invece in Villaggio un disilluso registratore della realtà. Fantozzi è spesso il punto di scarico delle tensioni di tutto il sistema: da quando copre per otto ore al giorno tutti i colleghi assenteisti i quali poi fanno mettere alla gogna lui per assenteismo (“Fantozzi subisce ancora”, 1983) a quando viene riassunto con la qualifica di parafulmine (“Il secondo tragico Fantozzi”, 1976). La fotografia di un sistema produttivo alienante, che stritolava nei suoi gangli la libera espressione personale, per il mondo della fabbrica era stata già resa da Chaplin negli anni Trenta; nel Fantozzi assunto con la mansione di spugnetta per francobolli tale presa d’atto si estende al lavoro impiegatizio.
Anche in altri personaggi di Villaggio (Fracchia, mandato all’inferno perché Dio, confuso da un lasciapassare, lo destina alle pene eterne riservate al suo sosia assassino, “la belva umana”) sono ben presenti le paure di Horkheimer nei confronti della “società amministrata”, la cui oppressione viene perpetuata dalla burocrazia.
Nell’ultimo film di Pasolini, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, uscito nel 1975 come il primo “Fantozzi”, uno dei militi fascisti, sorpreso dai suoi padroni a letto con una serva nera, alza il pugno chiuso e fa per breve tempo arretrare gli aguzzini prima che questi, ripreso il controllo di se stessi, lo abbattano a revolverate. Solo un anno dopo Salce e Villaggio mostrano i rappresentanti sindacali delle commissioni interne della Megaditta, vestiti da Guardie rosse, pregare come tutti gli altri dipendenti di essere estratti a sorte per accompagnare al casinò di Montecarlo il Megadirettore clamoroso duca conte Pier Carlo ing. Semenzara. La sfiducia di Villaggio nelle possibilità rivoluzionarie è tutta qui. L’integrazione dei lavoratori salariati nel sistema non può essere superata; è eloquente anche la definizione che l’attore dette di Democrazia Proletaria quando accettò di candidarsi nelle sue liste alla Camera nel 1987: «uno strano gruppo di protocristiani».
L’approdo finale a un orientamento verso il Movimento 5 Stelle è stata la logica conseguenza di quell’ibrido, mostruoso, tra la volontà di scardinare l’oppressione e l’incapacità di attaccarne le basi reali. Come nelle sue stesse paure, in ultimo anche Villaggio è stato riassorbito dal proteiforme capitalismo contemporaneo.
Occorre sempre distinguere l’artista dall’uomo. Ciò vale anche per Paolo Villaggio. Le controverse idee politiche maturate soprattutto nell’ultima fase della sua vita nulla tolgono al suo talento di comico, tanto nella veste di scrittore che di attore. Allo stesso modo, i suoi ultimi, mediocri film non rendono giustizia a un autore molto discontinuo ma a tratti geniale. La sua rilevanza va probabilmente circoscritta al Fantozzi degli anni settanta, la maschera più incisiva e riconoscibile dell’epoca, che riesce a risultare estremamente credibile e veritiera nonostante le iperboliche situazioni di estrema tragicomicità che lo riguardano.
Ma l’aspetto che rende ancora oggi di enorme interesse andarsi a rileggere o rivedere Fantozzi sta nella pungente analisi sociale che nasconde. L’inettitudine, la mediocrità, il servilismo, la goffaggine del personaggio rappresentano in maniera cinica, satirica e sarcastica la spersonalizzazione della società fordista, con la sua rigida gerarchia sociale, gli atteggiamenti finti e affettati, le inflessibili routine della vita quotidiana, il proliferare del consumo di massa.
Per molti aspetti quella società è scomparsa, travolta economicamente dal postfordismo neoliberista e culturalmente dalla postmodernità, ma è proprio tramite il microcosmo fantozziano che riusciamo meglio a cogliere le trasformazioni che hanno investito il nostro paese.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.