Articolo pubblicato per la prima volta il 28 novembre 2016
Il 25 novembre di questo 2016 è morto Fidel Castro, all’età di novant’anni.
Il Becco non vuole dedicargli il “coccodrillo” di rito, e l’Autore condivide questo orientamento. Più importante è cercare di pensare la figura di Castro, ora che l’uomo – un uomo lucido fino all’ultimo, sempre pungente nelle sue riflessioni affidate alla scrittura – è perduto e rimane solamente la Storia.
Pensare Castro significa prima di tutto pensare cosa la sua figura e la sua opera hanno significato per noi, europei variamente collocati nel campo della sinistra. È innegabile come Castro e la sua Cuba abbiano rappresentato per chiunque decidesse di militare dalla nostra parte un esempio perlomeno di orgoglio tenace, di resistenza contro ogni probabilità a poteri soverchianti. Cuba è infatti probabilmente l’unica nazione a non aver deluso gli entusiasmi nati all’epoca della decolonizzazione, a non essere stata “normalizzata” o distrutta dal sistema mondo euroamericano e dalla sua influenza rapace. Ed è nella decolonizzazione che dobbiamo situare la storia sua e del suo più importante protagonista.
Nella storia della decolonizzazione dell’America meridionale – escludiamo qui il significativo precedente della Haiti francese e la diversissima vicenda brasiliana – Cuba è fine e principio di due fasi singolari.
Chiude la fase dello sfascio dell’antico impero spagnolo iniziato nel XIX secolo in nome del liberalismo con le insurrezioni dei Libertadores e sequela di battaglie nel continente e conclusosi con la guerra ispano-americana, che risulta nell’occupazione militare dell’Isola da parte degli Stati Uniti (1898). Gli spagnoli lasciano in eredità a Cuba un’agricoltura strettamente di piantagione, coloniale, fatto che continuerà (e continua) a influenzare la storia economica del Paese. La nascita della Repubblica indipendente (1902) avviene sotto il ricatto dell’emendamento Platt, che rende sostanzialmente Cuba un protettorato americano, privo di controllo sulle relazioni estere e sulla politica economica e sotto la costante minaccia della marina USA stazionata a Guantanamo. Gli Stati Uniti dimostreranno vistosamente quanto poco l’indipendenza di Cuba fosse reale rioccupando l’Isola dal 1906 al 1909 e dal 1917 al 1922. Negli anni ’30 le condizioni dell’emendamento Platt verranno rilassate nel nome della politica del “buon vicino” solo per far spazio a un controllo meno visibile ma non per questo mento assoluto. Prima della rivoluzione Cuba era strettamente dipendente dalle esportazioni di prodotti agricoli verso gli USA, e l’Isola era in buona parte terra franca per arraffatori americani di ogni genere, criminali compresi. Sotto l’incompetente leadership di Batista l’economia cubana navigava in cattive acque, tra un corporativismo e una cartellizzazione selvaggia che bloccava ogni possibilità di riforma; solo il massiccio sfruttamento di ogni risorsa ai fini dell’esportazione faceva sì che il Paese risultasse tra i meno disgraziati del Sudamerica, anche se nella realtà la ricchezza che affluiva nell’Isola veniva distribuita tra i “soliti noti” aumentando le diseguaglianze e scontentando la ristretta classe media.
Cuba apre invece la fase della decolonizzazione mondiale del secondo dopoguerra in due sensi. Quando nel 1959 Castro e i suoi portano vittoriosamente a termine la rivoluzione la vittoria dei “barbudos” sembra tanto la vittoria di una guerra di liberazione nazionale. Cuba si libera da mezzo secolo di umiliazione e sudditanza e prende in mano le redini del suo destino. La scelta dell’orbita del blocco sovietico per l’isola da parte di Castro dovrebbe a questo punto apparire scontata: Cuba si era liberata dal potere americano ma possedeva scarsissime risorse naturali e aveva disperatamente bisogno di un partner verso cui esportare i prodotti dell’agricoltura di piantagione e da cui importare beni cruciali, essenzialmente carburanti e prodotti dell’industria pesante, nonché di un partner potente per difendere la propria fragile autodeterminazione. La dipendenza dall’URSS – e purtroppo dalle sue esigenze bellico-politiche – si aggraverà con lo stringersi della morsa mortale del bloqueo americano negli anni ’60 e l’incupirsi della guerra fredda. Nella periferia dello scontro tra potenze, pochi anni prima della rivoluzione cubana gli imperi europei avevano iniziato a crollare, del 1955 è la conferenza di Bandung, del 1957 è l’indipendenza del Ghana di Nkrumah. Si intravede una tenue speranza per i popoli del sud del mondo. Le difficoltà domestiche, tra cui una fallita invasione e una serie senza fine di attentati terroristici e tentativi di assassinio organizzati dalla CIA, non distoglieranno Castro dal concepire per più di un trentennio la missione globale di Cuba in termini anticoloniali: nello sfortunato contesto della crisi congolese opera per un periodo addirittura Guevara, aiuti cubani giungono a chi in Mozambico e Angola combatte contro il Portogallo, primo e ultimo stato coloniale d’Europa. Terminate con alterne fortune le vicende belliche Cuba fornirà sempre agli stati del sud mondiale aiuti medici e umanitari.
Con il crollo dell’URSS Castro si trova a dover traghettare Cuba nel dolorosissimo “periodo especial”, una crisi economica di portata disastrosa dovuta al venire meno del carburante sovietico e delle esportazioni verso il COMECON, aggravato dal persistere dell’embargo statunitense. La leadership cubana mette in campo un difficile processo di transizione agricola ed economica, che anche grazie al probabile rilassamento dell’embargo potrebbe finalmente far intravedere la luce alla fine del tunnel all’economia cubana.
La storia lo assolverà?
La morte di un uomo, specie quella di una grande figura della storia contemporanea non deve essere occasione di sterile celebrazione o tantomeno facile riprovazione. Con la morte di Castro più di un commentatore della nostra stampa ha avuto occasione di sprecare inchiostro per fare sfoggio di anticastrismo, spesso ignorando colpevolmente o tacendo vigliaccamente del contesto storico in cui Fidel si è trovato ad operare, indispensabile non per giustificare ma per capire.
Chi imputa a Castro la supposta povertà dell’Isola ne ignora la storia economica, connotata fatalmente dal dominio dell’agricoltura da esportazione, dalla scarsità di risorse locali e dal bloqueo americano, oltre che dalle sofferenze patite durante il periodo especial.
L’economia di mercato capitalistica di per sé non ha virtù salvifiche: Paesi simili dei Caraibi e del Centro America da sempre o quasi ad economia di mercato sono ad oggi in situazioni peggiori di quella cubana (Haiti, il Belize, la Giamaica, ma pure la Repubblica Dominicana). Molti di quelli che accusano Cuba di essere uno stato totalitario totalmente sprezzante dei diritti umani tacciono sulla campagna terroristica e di sabotaggio portata avanti dagli Stati Uniti contro l’Isola dopo la rivoluzione, costata migliaia di vittime, e tacciono sul triste destino riservato a chiunque abbia tentato di liberarsi dal giogo del “buon vicino” nel contesto della guerra fredda. Nicaragua, Guatemala, Grenada, Cile e Argentina sono i primi nomi che vengono in mente.
Quanto tutto questo ha influito sulla possibilità di una transizione democratica che non si risolvesse in un ritorno dell’egemonia statunitense e dei suoi costi sociali o di una dittatura militare, nel caso il risultato delle urne non fosse gradito al potente vicino? Infine, a chi strumentalizza i diritti delle persone LGBT andrebbe ribadito l’invito a studiare le culture sudamericane, oggettivamente diffusamente omofobe anche a causa della persistente influenza dei codici europei del periodo coloniale e del cattolicesimo sulla legislazione e sulla cultura politica, invece che brandire una recente conquista dell’Occidente (il lettore pensi che esiste uno degli stati più industrializzati del mondo in cui gli omosessuali non hanno il diritto di unirsi se non in una “formazione sociale specifica”) come randello eurocentrico. Da tempo inoltre Cuba ha messo in campo iniziative concrete per combattere l’omofobia. Tutte le criticità della Cuba contemporanea (oltre a quelle già citate dai nemici di Castro, la mancanza di una classe politica che possa prendere il posto degli anziani fratelli, l’impatto del turismo internazionale, l’ambiguo rapporto con la Cina e la risposta a una possibile fine del bloqueo) sono reali, gravi e necessitano di essere affrontate dal popolo cubano, poche volte però in Occidente vengono capite e usate come spunti per una discussione che lasci comunque l’ultima parola al popolo cubano, più spesso diventano armi in una guerra ideologica che ha lasciato e lascia sul terreno come prime vittime la storia e la verità.
L’Autore è un europeo occidentale legato ai valori progressisti della democrazia liberale, molto lontano dall’essere un nostalgico del socialismo reale e assolutamente avverso all’autoritarismo seppur “di sinistra”, e non vuole assolutamente negare la presenza di contraddizioni e di elementi anche molto negativi nell’opera di Castro. Crede però che per criticare, anche ferocemente, sia necessario comprendere una moltitudine di elementi contestuali. Tanto più se in gioco c’è l’opera storica di un protagonista assoluto come Fidel Castro.
Immagine da commons.wikimedia.org
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.