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21 Giugno 2019

Profughi, migranti economici, rifugiati e seconde generazioni: la confusione del discorso razzista e il ritorno del razzismo esplicito

Elena De Zan Diritti

C’erano una volta i Napoletani, i Terroni, i Marocchini gli Albanesi e i Rumeni. Ora “il nemico” non ha più una nazionalità, ma uno status politico-giuridico: i “profughi”.
Cambia il tempo, cambiano le politiche internazionali e i capri espiatori, ma il discorso rimane lo stesso: chi non fa parte del “nostro gruppo” di appartenenza (che varia di volta in volta – Città, Provincia, Regione, Nazione, Continente, Occidente ecc.) è pericoloso e minaccia il nostro quieto vivere, e per questo va escluso dal nostro sistema.

Se negli anni passati però i pregiudizi erano concentrati sui migranti economici, accusati di essere ospiti sgraditi (se sei ospite ti devi comportare in maniera perfetta, e seguire regole morali ben precise, senza sgarrare mai), portatori di un bagaglio culturale inconciliabile con quello italiano, attualmente il discorso razzista si è esteso a tutte le “categorie” di migranti, ed ha iniziato a prendere di mira anche i richiedenti asilo e i rifugiati. L’idea che il migrante sia ospite non risparmia né Destra né Sinistra, e persiste anche nel caso dei profughi, che più che ospiti sono prigionieri: questi, sia che siano relegati in un centro d’accoglienza o in un campo, si ritrovano in un limbo burocratico, in uno “stato di eccezione” che troppo spesso diviene norma, sono nuda vita da amministrare.

Ma l’occhio dell’italiano medio, più che vederli come persone che hanno rischiato la vita per scappare, e che di fatto non possono più tornare in patria, li concepisce come pericolosi invasori che mettono a rischio il suo bel paese e la sua “cultura”. L’allarme “invasione” dei profughi (e degli stranieri in genere) è però solo l’ennesimo escamotage per non guardare in faccia la realtà, che cavalca un’ossessione di declassamento del ceto medio; la popolazione che non sopporta più la situazione di crisi attuale e l’impoverimento diffuso trova infatti nell’altro una giustificazione alla propria impotenza di fronte al malessere della sua esistenza.

Gli stranieri, che si ritrovano ad essere il capro espiatorio di questa narrazione, vengono disumanizzati dal discorso razzista, sono un’alterità assoluta, un insieme di non-persone; essi sono intesi come un blocco unico e le differenze interne tra i vari migranti vengono completamente annullate, poco importa il loro vissuto, le loro storie e il perché hanno deciso di migrare.

La retorica della paura si estende a tutti gli stranieri: la narrazione di totale chiusura porta al rifiuto sia dei migranti potenziali (ma solo di quelli provenienti dai paesi del “terzo mondo”, in quanto il razzismo è sempre intersezionale e spesso combina provenienza e censo), sia di quelli già residenti nel nostro territorio. Inoltre si temono anche le seconde generazioni, quasi la “stranietà” dei genitori fosse una pericolosa malattia ereditaria.

Risultato: una legge blanda come quella proposta per lo Ius Soli, che regolarizzerebbe una situazione che di fatto esiste già, permettendo però una partecipazione politica più inclusiva a persone nate, cresciute e istruite in Italia, viene affossata dall’ignoranza e dalla diffusione del discorso razzista.
Eppure sembra logico che i potenziali italiani che otterrebbero la cittadinanza tramite lo Ius Soli, in quanto persone che partecipano in toto alla società italiana, debbano uscire dalla loro condizione di “sudditi” per poter contribuire attivamente al paese che di fatto è la loro patria (e che spesso è l’unico paese da loro conosciuto); ma, nella realtà dei fatti, questo diritto gli è stato negato e si ritrovano a doversi ancora scontrare con discorsi che fanno dello “straniero” un nemico e che vedono nello Ius Soli la porta d’entrata per un’invasione di massa che mette in pericolo la tanto preziosa “italianità”.

Senza una reale logica di fondo, la campagna mediatica e le politiche contro lo Ius Soli si sono alimentate grazie alla falsa credenza che chiunque entrasse in Italia diventasse in automatico italiano. Chi osa contrastare le posizioni della narrazione razzista, (non solo coloro che si limitano a un commento di solidarietà, ma anche chi risponde punto per punto alle critiche con argomentazioni logiche e razionali) viene accusato di “buonismo”, come se chi non cede all’odio, alla chiusura e alle facili strumentalizzazioni politiche sia colpevole di politically correct.

La generalizzazione della narrazione razzista a cui stiamo assistendo è un ulteriore esempio di disumanizzazione dell’altro: il “diverso” non può rimanere nel nostro paese nemmeno se scappa da conflitti armati, o se ha vissuto da sempre nel nostro paese. Se nel primo caso viene a mancare la basilare concezione di solidarietà e aiuto, che non è un concetto eversivo o “di sinistra” (la solidarietà dovrebbe essere alla base della pietas del cattolicesimo, di fatto religione nazionale) nel secondo caso c’è una cecità completa nei confronti di tutte quelle persone che condividono quotidianamente i nostri spazi, studiano e sono cresciute con noi e meriterebbero i nostri stessi diritti e doveri.

Ormai la retorica razzista non si scaglia solo contro il migrante “economico” (reo di cercare di migliorare la propria vita e sostanzialmente, uscire da una condizione di povertà più o meno estrema) ma anche contro chi non ha altra possibilità di sopravvivenza (morite e soffrite, ma lontano dai nostri occhi) e contro persone che come unica “colpa” hanno quella di essere nate.

Questa è l’ennesima dimostrazione che il discorso razzista sta divenendo sempre più esplicito e tollerato, tanto che nel discorso quotidiano non è raro vedere emergere a lato del “nuovo razzismo” (quello che parla di “culture inconciliabili” per intenderci, come se la cultura fosse un bagaglio immobile e immodificabile che ci portiamo appresso in maniera acritica) discorsi di “vecchio razzismo” (ossia la narrazione biologica sulle razze).
Lo sdoganamento del tabù razzista sta rendendo “legittime” tutta una serie di atteggiamenti e opinioni che fino a poco tempo fa erano considerate inaccettabili, e che ora le puoi trovare anche nei discorsi della politica ufficiale; e giustificare il razzismo significa riconoscere come ammissibili tutte le violenze, le discriminazioni sistemiche e gerarchiche insite nella nostra società, incluso il sessismo, l’omo/bi/trans fobia.

Eppure basta vedere come il discorso razzista banalizzi ed elimini la complessità dell’altro, delle sue storie, ed uniformi le stesse categorie giuridiche – sociali occidentali (rifugiato, migrante economico, seconde generazioni ecc.), per comprendere come questa sia una narrazione ignorante, semplicistica che di fatto crea un nemico immaginario e contrasta con la possibilità di affrontare le vere cause di quel malessere generale che accomuna la classe media italiana e i migranti: le disuguaglianze create dal sistema capitalista globale.


Pubblicato per la prima volta il 4 gennaio 2018

Immagine di Eugenio (dettaglio) da flickr.com

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Elena De Zan

Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/3029-elena-de-zan.html

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