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29 Aprile 2020

Un giudizio poco convinto su Unorthodox

Dmitrij Palagi Video

Apparsa alla fine di marzo 2020, Unorthodox si è affermata durante la pandemia Covid-19 come una serie capace di accogliere principalmente pareri favorevoli, di pubblico e critica si suole dire (nonostante Netflix conceda a fatica informazioni precise sulla fruizione dei suoi prodotti). Comunque è considerata la “serie del momento”, almeno in Italia.
La storia è basata sull’autobiografia di Deborah Feldman, uscita nel 2012 (un’edizione italiana è uscita a fine 2019). Una giovane ragazza decide di scappare dalla sua comunità chassidica (movimento ebraico ultraortodosso) di New York. A spingere la fuga, verso Berlino, è un difficile matrimonio, con il quale la si voleva integrare in una società dove era segnata dalla problematica situazione dei genitori. Il padre con forti problemi di alcol, la madre a sua volta scappata in Europa.

Unotrhodox propone 4 puntate da circa un’ora di durata. Tra i dettagli sottolineati spesso dalla stampa troviamo il fattore di genere. Due dei tre nomi dietro alla creazione della serie sono donne, come donne sono la regista e ovviamente l’autrice del soggetto che ha ispirato la storia. Precisa la scelta sui doppiaggi: per yiddish, russo, tedesco e altre lingue si sceglie il sottotitolato.
I piani temporali si alternano, tra il passato statunitense e la nuova vita che prova ad affermarsi in Germania.
La prova dell’attrice protagonista è sicuramente interessante e convincente, così come sul piano tecnico non stupisce l’ipotesi di un gruppo che potrebbe lavorare ancora insieme su altri prodotti (Unorthodox 2 appare oggi davvero improbabile come prospettiva).

Definire il prodotto un capolavoro sarebbe sbagliato… Quell’accordo tra pubblico e critica appare più un modo per registrare l’affermarsi tra il consumo “di massa” di una storia poco consumata nella grande distribuzione (anche se davvero sui numeri assoluti dell’intrattenimento sarebbe necessaria una discussione pubblica e internazionale che provi a fare il punto).
Leggendo alcuni articoli sembra quasi esista una difficoltà a parlare di personaggi non così approfonditi, tanto da arrivare a leggere parole di un’autorevole firma (Mauro Gervasini) sostenere che non esisterebbero cattivi. La semplificazione narrativa è invece forte, aiuta a veicolare una storia a suo modo lineare.

Essendo una serie basata su un’autobiografia necessariamente l’ottica è precisa e principalmente una, anche se proposta dall’esterno. Non guardiamo attraverso gli occhi della protagonista. La osserviamo, senza essere invitati a ragionare sulla sua vita. Siamo invitati a giudicare la società di cui fa parte e il suo coraggio. La comunità chassidica è quasi un dettaglio secondario, ma al tempo stesso il percorso soggettivo di Esty non è centrale. Problemi sociali diffusi sembrano doversi ascrivere specificatamente agli ebrei ultraortodossi, mentre a Berlino si accenna in qualche occasione al rapporto tra memoria e Israele (anche qui però si resta davvero troppo in superficie).
Parlando di queste perplessità, mi è stato segnalato che anche Michela Murgia ha promosso un dialogo dove si esplicitano perplessità analoghe.

Pretendere troppo da una serie televisiva sarebbe un eccesso. È lecito che Unorthodox possa piacere. Dovrebbe essere scontato scriverlo, ma nella società e – soprattutto sui social network – sembra che le persone si sentano in diritto di dire anche cosa può e non può piacere… È in fondo solo un prodotto di consumo culturale prodotto su Netflix. Non può però essere definita una serie di successo.


Immagine Netflix

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Dmitrij Palagi

Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.

archivio.ilbecco.it/component/k2/itemlist/user/929-dmitrij-palagi.html
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