Tra i testi di argomento pandemico disponibili in lingua italiana e che, nell’ultimo anno, hanno goduto di un nuovo successo, un posto di assoluto rilievo merita Conquista: la distruzione degli indios americani (Il Mulino, 2005, pp. 335) di Massimo Livi Bacci, docente di Demografia presso l’Università di Firenze.
Il libro, che si caratterizza per il suo taglio divulgativo pur senza rinunciare all’accuratezza scientifica, affronta uno dei temi più dibattuti, almeno a partire dal Novecento, nella storiografia sul colonialismo e sulle esplorazioni geografiche e cioè il reale impatto avuto dalle malattie – ed in particolar modo dal vaiolo, morbo del quale si ricostruisce, con convincenti ipotesi, le dinamiche del suo arrivo dall’Europa al Nuovo Mondo – nel calo demografico cui si si assistette nei Caraibi, nell’America Centrale e nei territori dell’ex impero incaico.
Filo conduttore dell’esposizione di Livi Bacci è l’assegnazione di un peso realistico avuto da virus e batteri nel determinare crolli demografici difficili da stimare (si veda in tal senso una complessa ricostruzione offerta dall’Autore circa la reale consistenza demografica dei Tainos) e non universali (in proposito è brevemente illustrato il fenomeno delle reducciones gesuitiche tra i Guaranì ed il loro impatto sulla demografia locale).
Il rischio concreto è infatti quello di sovrastimare l’impatto demografico avuto degli eventi pandemici finendo per assegnare un peso nullo, e dunque giustificare, gli interventi politico-economici attuati dai colonizzatori spagnoli nell’America Centro-Meridionale. Forme di lavoro coatto o semi-coatto (in particolare nelle attività minerarie), la sottrazione delle donne indios al pool genetico locale e la loro integrazione in quello del dominante (che per decenni avrà in quelle terre, per ragioni di ordine socio-economico e militare, un volto sempre maschile), lo stravolgimento dei sistemi produttivi e distributivi pre-conquista, hanno giocato un loro triste ruolo nel determinare crolli, cali o mancate riprese demografiche tra i primi abitatori di quelle aree.
Il proponimento di Livi Bacci è stato dunque quello di smontare – in nome di una esposizione che sia il più possibile ricostruttiva della realtà e quindi scientifica – la visione affermatasi, e rilanciata anche di recente, che assegna tutte le colpe delle catastrofi demografiche susseguitesi nel Nuovo Mondo a inconsapevoli virus e batteri liberando gli europei dal peso di un consapevole, anche se non sempre volontario, massacro. Si tratta di una lettura rovesciata rispetto a quella esposta da Jared Diamond in Armi, acciaio e malettie che si caratterizzava, all’opposto, per un determinismo geografico-biologico che spiegasse il perché si è prodotto il dominio degli europei sul resto del mondo (e sulle Americhe in particolare). Una visione, quella di Diamond poi parzialmente corretta dal medesimo autore in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi, 2005, pp. 566) ove, invece, vengono sottolineate le scelte delle società umane come decisive ai fini della sopravvivenza o, anche, del successo delle stesse.
Certo è che il testo che ha reso celebre nel mondo Diamond ha avuto, al netto delle estremizzazioni che costrinsero lo stesso autore alla correzione di rotta di cui si diceva, il merito di portare i microrganismi sul palcoscenico della storia, agenti anch’essi dei grandi processi di trasformazione sociale e di dominio. Un ruolo mai considerato dalla storiografia scientifica. In tal senso spicca l’assenza del tema in Storia del colonialismo di Wolfgang Reinhard (Einaudi, 2022, pp. 387) o ancora nello, splendido, La guerra sul mare. 1500-1650 di Jan Glete (il Mulino, 2017, pp. 348) nel quale invece sono la tecnologia ed il ruolo di concentrazione di know-how e capitali da parte delle Marine pubbliche (o, nel caso olandese, da parte di un contesto di costante diffusione di ritrovati tecnici, denaro e competenze) le due chiavi con le quali gli europei hanno aperto, per loro, il resto del pianeta.
Quelli sopra proposti sono soltanto alcuni degli innumerevoli esempi possibili di riflessione sul tema: qualora si dovesse esaminare l’assenza degli elementi biologici (e forse fino a Emmanuel Le Roy Ladurie anche del clima) la lista conterrebbe sostanzialmente tutta la storiografia prodotta fino agli anni Settanta. Quello che pare di comprendere, invece, dall’attuale pandemia è che l’elemento biologico è destinato a non uscire, almeno per i prossimi decenni (anche se i cicli delle tendenze storiografiche sono stati molto accorciati dai nuovi mezzi di comunicazione), dal dibattito storiografico. La speranza è che a prevalere sia una visione scientifica, che contenga tutte le variabili, e che almeno una generazione di futuri storici oggi in formazione non contragga (magari spinta da premi per le tesi o dall’interesse degli editori per temi “che tirano”) quella che John Tosh in un suo noto testo (Introduzione alla ricerca storica, La Nuova Italia, 1999, pp. 272) ha efficacemente chiamato, la “sindrome del tunnel”.
Immagine: dettaglio dalla copertina del libro
Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.