Di Niccolò Bassanello e Silvia D’Amato Avanzi
Una delle
espressioni più ripetute e certo più caratterizzanti del 2019 è
stata “emergenza climatica”, usata da movimenti
ambientalisti come Fridays For Future quanto da
gruppi di scienziati per comunicare la necessità di azioni
concrete e tempestive dirette al contrasto del cambiamento climatico.
La comunicazione è sempre stata decisiva nella costruzione
dell’immaginario della questione ambientale e climatica, passando
dal diffondere sensibilità per il tema all’anticipare l’elaborazione
politica.
Questo ruolo è
stato anche oculatamente sfruttato da chi volesse rimodellare il tema
ambientale al servizio della propria propaganda – si pensi ad esempio
alla strategica promozione dell’espressione “cambiamento
climatico“, a
sostituire il ben meno neutrale e rassicurante “riscaldamento
globale”
precedentemente più in voga
a partire dagli anni ’90,
coadiuvata al finanziamento di “ricerche” negazioniste ed a
una generale tattica di confusione del dibattito per indebolire
l’opposizione culturale all’imprenditoria dei combustibili fossili.
Il successo della formula “cambiamento climatico”,
introdotta per la prima volta nel rapporto sulle emissioni di
anidride carbonica dell’Accademia Nazionale delle Scienze
statunitense del 1979, è stato anche legato ad un certo favore della
comunità scientifica che vi ha visto sia un
termine ombrello in grado di coprire una varietà di fenomeni sia
forse un espediente linguistico di sintesi con le sue frange
negazioniste del surriscaldamento globale, estremamente minoritarie
ma estremamente sovrarappresentate nei media generalisti.
Gli
ultimi anni hanno visto una netta accelerazione dell’invenzione
linguistica per significare la pesante realtà del cambiamento
climatico e dei suoi effetti nell’attuale fase storica: “catastrofe
climatica”, “crisi climatica”, e soprattutto “emergenza
climatica”. Quest’ultimo deve con ogni probabilità il suo successo
all’appartenenza del concetto di “emergenza” al dizionario
politico occidentale, in cui occupa un posto preminente, e quindi ad
una sorta di effetto di traduzione e intercomprensibilità che
permette alle rivendicazioni che assumono il termine di traslarsi
immediatamente nel dibattito politico delle istituzioni. Un successo:
piccole e grandi, simbolicamente o come primo passo concreto, proprio
le istituzioni hanno iniziato a rispondere all’attivismo del
movimento e della società civile dichiarando lo “stato di
emergenza climatica”. Un fenomeno che ormai si spiega da solo
nella realtà dei fatti, in buona parte, quindi.
Ma nel caso di
“emergenza climatica”, l’intento comunicativo di esprimere
urgenza, proprio nel suo predeterminare il quadro del dibattito
politico, trascina con sé alcuni pericoli da evidenziare prima che
si traducano in azione politica.
“Emergenza”
è un fenomeno non necessariamente negativo che si presenta, emerge
come novità in un processo.
Con
connotazione del tutto neutrale,
in biologia si chiama “proprietà emergente”
una caratteristica che
compare in uno stadio organizzativo ed è assente in quelli
gerarchicamente inferiori,
come ad esempio le proprietà dei tessuti che non sono riscontrabili
a livello delle singole cellule.
La principale
connotazione del termine
“emergenza” è
l’eccezionalità,
dalla quale può derivare
secondariamente la necessità di misure urgenti, ma anch’esse
eccezionali, per contrastarla o contenerla.
Non si tratta di una
sottigliezza
semantica. Coltivare questo
immaginario di eccezione implica anzitutto la dissociazione delle
attuali condizioni del pianeta dall’azione del sistema economico
prevalente sulla sua superficie, rispetto al quale il cambiamento
climatico sarebbe straordinario. Ma affermare la responsabilità
dell’azione umana nel cambiamento climatico non può prescindere dal
riconoscere la responsabilità del capitalismo, rispetto al cui
funzionamento il surriscaldamento globale è del tutto, tragicamente
ordinario.
Più
interessante, in questo senso, è la
formula “crisi
climatica”
espressamente
scelta
tra le altre
dalla testata The
Guardian: eloquente
circa la gravità della
situazione e allo stesso tempo capace
di descriverla attraverso un
fenomeno, quello della crisi, caratteristico del capitalismo.
Non
è possibile immaginare di
arrestare, o almeno contenere, la
crisi climatica lasciando
intatte le condizioni che l’hanno
prodotta:
l’unica prospettiva pratica di lungo termine della questione
climatica è una radicale critica al capitalismo, per la costruzione
di un sistema alternativo;
inquadrare come “emergenza”
la crisi climatica rischia di annichilire sul nascere ogni
potenzialità trasformativa progressista
dei movimenti ambientalisti.
Le ombre legate alla
diffusione del concetto di emergenza climatica incombono però già
nell’immediato. Il concetto di emergenza, nel registro del
politico, evoca il concetto contiguo e difficilmente separabile di
eccezione, e quindi lo stato
di emergenza evoca di per sé il
quasi sinonimo stato di eccezione. Proprio
quest’ultimo è al centro di una parte molto conosciuta e citata
della riflessione del filosofo del diritto Carl Schmitt, uomo
di destra, ma il cui pensiero conosce da tempo, in Italia e di
riflesso nell’intera filosofia Continentale, una riscoperta
principalmente “da sinistra”. Schmitt, principalmente in Teologia
politica, sostiene famosamente
che sovrano è colui che
decide dello stato d’eccezione,
vale a dire colui che può sospendere la legge e le norme del vivere
politico e civile per concentrare su di sé il potere necessario a
superare una fase critica, agendo così per il bene comune.
Certamente questo potere
sovrano può essere previsto nella legalità della stessa
costituzione, ma ogni tentativo di regolamentarlo davvero e di
imporgli dei limiti precisi a priori sarebbe
per il giurista tedesco destinato all’insuccesso.
L’idealtipo è – semplificando – palesemente il dittatore o il
tiranno dell’antichità, ma ciò che dice Schmitt è del tutto
moderno: per
l’Italia, si pensi al proliferare di poteri
commissariali e straordinari
creati dallo stato in risposta a più o meno reali emergenze e
disastri cosiddetti naturali
o antropogenici; tutti con il loro grado maggiore o minore di
concentrazione di poteri e di possibilità di deroga.
Si veda ad esempio la testimonianza di
Marco
Armiero ed Egidio Giordano su Jacobin
Italia di
cosa ha significato l'”emergenza rifiuti” nella
Terra dei Fuochi in termini
di governo del territorio e
del dissenso; mentre Giacomo
d’Alisa su Undisciplined
Environments richiama anche
la gestione dell'”emergenza” a seguito del terremoto
dell’Aquila del 2009:
dallo
spostamento del G8 tra le rovine della città terremotata,
funzionale tanto a
capitalizzare consenso quanto a tenere manifestazioni di
contestazione alla larga per motivi di sicurezza,
alla sfrenata speculazione sulla ricostruzione e le case per le
popolazioni terremotate.
L’eccezione
è quindi una possibilità fondante la sovranità,
immanente alla dialettica tra autorità sovrana e legge. Stante ciò,
non sorprende che il lessico politico e istituzionale abbia potuto
accogliere con facilità un concetto come quello di «emergenza
climatica».
Mettendo
tra parentesi le complesse tesi di
Schmitt, va
aggiunto al nostro
ragionamento
un ulteriore elemento, che fa in un certo senso da limite o
contraltare: la temporalità. L’emergenza
e l’eccezione indicano fenomeni imprevisti,
insoliti, contenuti; altrimenti non si parlerebbe di emergenze ed
eccezioni, ma di normalità. Il limite spaziale e temporale è parte
della semantica del termine.
Lo
stato d’eccezione segna la sospensione di un ordine normativo
compromesso da parte del potere sovrano, che volge quindi la sua
piena forza contro una situazione critica che è ovviamente contenuta
temporalmente tra un inizio una fine, ovvero quella risoluzione della
crisi che il sovrano immagina e cerca di concretizzare.
Temporalmente oltre questa
“fine” stanno due possibilità: o la restaurazione del vecchio
ordine e della normalità dei rapporti di potere precedente alla
crisi o la costuzione di un nuovo ordine e di nuovi rapporti di
potere, lo stato d’eccezione diventerebbe in questo ultimo caso
“costituente”. Lo
status quo ante sembra la possibilità a prima vista più ovvia,
e sappiamo come sia più volte servito da giustificazione allo stato
di emergenza stesso, ma sappiamo altrettanto bene che è invece la
seconda possibilità la più plausibile: il tempo della storia in
fondo non può essere riavvolto, né uno stato di cose davvero
ricostruito. Tra l’altro, è questa l’unica possibilità che ci
sembra ammetta esplicitamente Schmitt.
Dall’emergenza
nasce un nuovo ordine e
una nuova legge, che non assomigliano al passato, quindi,
fino al caso estremo della paradossale normalizzazione dello stato di
eccezione, dell’anomia del potere.
Ma,
oltre a quanto detto,
possiamo pensare che spesso
ciò che più di tutto rende probabile un esito “costituente” sia
spesso la stessa natura della cosa in
questione; in parole povere che ciò che viene pensato come emergente
– imprevisto, insolito, contenuto, eccezionale – tale non è in
nessun senso, e che quindi anche una
reazione politica e di potere di stampo eccezionale ed emergenziale –
concentrata limitata nel tempo – sia destinata al fallimento.
Fallimento parziale, perché a fronte dell’impossibilità di
eliminare il presunto fenomeno emergente e di risolvere la crisi
rimane al potere sovrano l’opzione di costruire un nuovo ordine, che
si adatti alla situazione o costituzionalizzi gli strumenti per
affrontarne le conseguenze, oppure che semplicemente ridistribuisca
la gerarchia del potere e permetta all’assetto socioeconomico
minacciato di rinnovarsi e sopravvivere.
Sappiamo
come gli attentati dell’11 settembre 2001 abbiano aperto il
particolare e strano stato di eccezione costituito dalla cosiddetta
“Guerra globale al
terrorismo”, come
quest’ultima si sia rivelata un colossale fallimento, dato che le
radici dei fenomeni che l’amministrazione Bush proclamava di voler
sconfiggere in qualche mese con la sola forza si estendono attraverso
vaste determinanti materiali e geopolitiche e decenni di storia, e
come molte delle misure straordinarie prese in quel contesto e
giustificate dalla logica dell’emergenza siano state politicamente
poste come pietre angolari del nuovo ordine e della nuova normalità,
dal famigerato Uniting and Strengthening America by
Providing Appropriate Tools to Restrict, Intercept and Obstruct
Terrorism Act (USA PATRIOT Act)del 2001 in giù. Se
possiamo dire a ragion veduta che le azioni di Bush non hanno
eliminato la minaccia del terrorismo di matrice islamista, che anzi
hanno con ogni probabilità reso più grave quel problema e hanno
creato o esacerbato altri problemi simili, dal terrorismo di estrema
destra al razzismo, è anche evidente che quella fase ha avuto
successo nel ricostruire
(in peggio) i rapporti di potere a livello mondiale
con cui ancora oggi dobbiamo convivere.
Ritorniamo
quindi al clima dopo questa lunga parentesi.
Stante quanto detto
supra, la
rivendicazione dell’emergenza climatica da parte del movimento può
di per sé, oltre al valore simbolico e di mobilitazione emotiva,
avere un positivo significato di rivendicazione
di sovranità: noi siamo
popolo sovrano proprio in quanto decidiamo che la nostra vita è in
pericolo e mettiamo in campo misure straordinarie e
“costituenti” per fare
fronte a questa minaccia, al di là del già politicamente normale.
Questo è un elemento
politico ben presente nelle mobilitazioni dell’ultimo periodo, che va
ricordato prima di tutto.
Purtroppo però i risvolti positivi
dell’enfasi sulla natura emergenziale dei problemi ambientali
nascondono elementi negativi che a nostro parere rischiano di
oscurarli. Primo tra tutti quello di non cogliere in pieno le
radici storiche
nel
lunghissimo periodo e nella
vastissima distanza dei
fenomeni che determinano quei problemi, dal sinolo
capitalismo-tecnica industriale
ad una cultura (e cultura
politica) che valuta esclusivamente i beni privati e svaluta i beni
pubblici e comuni e che
misura i successi in termini di capacità di consumo individuale.
Anche se l’”emergenza climatica” non rimanesse un mero atto
simbolico, e una o più istituzioni decidessero di dotarsi di poteri
speciali per farvi fronte, è difficile pensare a come potrebbero
risolvere un fenomeno che
non si lascia risolvere, proprio perché non è “emergente”, ma
immanente, parte della
trama stessa dei nostri sistemi socioeconomici e politici, del nostro
vivere comune economico e non: perché
è la normalità di uno stato di cose.
Rimane logicamente come unica
possibilità di ottenere risultati la ricostruzione
di un ordine “attorno” al problema.
Il che ci porta alla seconda
criticità, ovvero che chiedere a chi detiene in questo momento il
potere politico ed economico di aprire lo stato d’eccezione implicito
nella nozione di «emergenza climatica» significa offrirgli una
grandissima opportunità di rinnovare l’esistente a proprio favore.
Schmitt ritiene che, per quanto difficilmente contenibile nel
suo potere, il sovrano non
possa dichiarare lo stato
d’eccezione se non è legittimato dall’opinione condivisa nelle sue
ragioni. Un potere sovrano che sfrutti la legittimazione delle giuste
preoccupazioni ambientali condivise per aprire una fase eccezionale,
derogare la legge e
scavalcare le norme della politica per costruire a suo piacimento un
ordine rinnovato, magari un
capitalismo o un nazionalismo “verdi”,
con corollario di austerità permanente, spazi di decisione sottratti
alla dialettica democratica e magari neocolonialismo estrattivo
nel nome della gestione
ottimale delle risorse “dell’umanità”, non è un’eventualità
così impossibile da immaginare.
Se
davvero “emergenza climatica” vuole essere qualcosa più che uno
slogan, è bene che parta dall’assunto che l’assetto
economico, politico, sociale ed istituzionale presente è parte del
problema, e che – nella
forma attuale – non può essere parte della soluzione. Ciò non
significa tornare a casa e attendere la venuta del Messia, o
continuare con la politica di sempre e
rimandare la questione
ambientale a improbabili futuri apocalittici, tecnologici o
postrivoluzionari. Non significa nemmeno ritirarsi in un settarismo
della salvezza personale, in cui pochi eletti eco-woke
si contrappongono ad una massa di reprobi fossili: ipotesi ridicola,
se si pensa alla generalità della minaccia posta da una Terra
invivibile. Significa invece assumersi qui e ora, dal basso, la
necessità di un cambiamento radicale e di un nuovo
modello di vivere comune radicalmente
democratico, e di dotarsi
degli strumenti per ottenerlo, per gradi o meno.
Significa,
soprattutto, non farsi saturare da soluzioni prefabbricate e da mode
culturali e di pensiero.
Immagine NASA SVS/NASA Center for Climate Simulation
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