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24 Gennaio 2020

Di “odio” in rete, securitarismo e elefanti nella stanza

Silvia D'Amato Avanzi Società

In Italia l’accesso a internet di massa è arrivato quasi di colpo negli ultimi anni, soprattutto con l’avvento degli smartphone. Prima era infatti limitato a poche aree geografiche raggiunte da una connessione stabile e ulteriormente ristretto per classe a chi aveva un computer a casa. Una minoranza privilegiata ha frequentato i forum con la loro rigorosa etichetta, ha magari sostituito o modificato parti del suo computer, ha assistito a due decenni di evoluzione del reticolato dei siti e dei motori di ricerca; ma la maggior parte della popolazione italiana non sembra saper usare internet: non comprende il funzionamento del dispositivo che ha in mano e si districa con difficoltà al di fuori di pochi siti familiari (generalmente social network), oltre a non avere coscienza di quali suoi dati siano rilevati e non conoscere, sostanzialmente, regole di comportamento.
Se a questo si somma l’età media della classe dirigente che dovrebbe normare lo spazio virtuale e i suoi rapporti con quello non virtuale, si intuiscono forse i motivi della confusione che caratterizza il dibattito su se e come combattere i cosiddetti fenomeni d’odio in rete.

Il perimetro della discussione è recintato da proposte di controllo o limitazione dell’accesso ai social network – anche perché apparentemente gli attori sono tanto più entusiasti nell’invocare genericamente misure draconiane quanto meno sanno da dove cominciare. Per citare gli esempi più noti: il senatore Luigi Marattin (Italia Viva) lo scorso ottobre ha promesso una proposta di legge per l’obbligo di registrarsi sui social network con i dati della carta d’identità; mentre è di questi giorni l’idea di Mattia Santori, noto come portavoce di 6000sardine, di un «DASPO social» integrato nel Decreto Sicurezza per escludere dai social network chi «non è in grado di comportarsi nell’arena pubblica», anche in questo caso attraverso un sistema di certificazione dell’identità.
Le due proposte sono essenzialmente simili, sia in quanto fondate sul controllo dell’identità degli utenti, sia per l’approccio espressamente securitario, sia per il sostanziale malinteso del ruolo dell’identità (anagrafica e non) su internet.

L’aspetto tecnico è il più immediato da rifiutare, basta quasi parafrasare la proposta: si affiderebbero i dati dei documenti d’identità dei cittadini, dati delicatissimi per i quali l’aggettivo sensibili non è forse sufficiente (si pensi solo al fatto che con essi è possibile clonare e contraffare documenti), ad un privato magari con sede legale all’estero – Marattin auspica un generico ente certificatore terzo da preferire a Facebook, ma nelle sue stesse parole questo aspetto è secondario rispetto alla messa in atto del sistema di certificazione.

Del resto, gli haters su internet hanno tipicamente le identità in chiaro – un po’ per scarsa dimestichezza di privacy, un po’ per un generalizzato senso di impunità su internet, un po’perché si sentono forti, parte di una maggioranza. L’attività della campagna #OdiareTiCosta, che si basa sul querelare chi commette reati di discriminazione sui social network, lo dimostra plasticamente. Il mito del “profilo falso” che rimbalza di bocca in bocca nel dibattito pubblico è sostanzialmente infondato – nasce forse da una certa confusione con i bot automatici, che però non hanno a che fare con la questione. Tranne pochissimi utenti in grado di anonimizzarsi effettivamente grazie a competenze ben al di fuori della portata della maggioranza, in caso di necessità giudiziaria è possibile risalire all’identità dell’autore di un atto online attraverso il suo indirizzo Ip.
A ricorrere più spesso a pseudonimi o identità diverse da quella anagrafica, su internet, sono invece persone appartenenti a minoranze, persone vittime di bullismo o di mobbing, persone in transizione i cui dati anagrafici non sono ancora stati rettificati, persone discriminate per elementi della loro identità che grazie ad uno pseudonimo possono avere almeno su internet una vita relativamente più serena.
Le vittime, e non i carnefici, sarebbero le persone certamente colpite dall’obbligo di certificare la propria identità sui social network.

L’esclusione dai social network di non ben specificati trasgressori sarebbe un passo ulteriore di securitarismo, del resto non dissimulato – oltre all’immaginario di arbitraria limitazione della libertà personale (indipendentemente dal configurarsi di un reato o un illecito) evocato dalla scelta della parola DASPO, basti pensare alla leggerezza dell’associazione con i Decreti Sicurezza. L’indirizzo è sproporzionatamente contro persone e apparentemente solo vagamente contro i contenuti – il riferimento più circoscritto è al registro usato, non al messaggio; proprio la genericità degli obiettivi da colpire con la sproporzionata misura di una radicale limitazione della libertà di espressione dovrebbe allarmare.

Nel complesso si tratterebbe quindi di un approccio inutile nel combattere il problema e allo stesso tempo per molti versi problematico. Ciò non significa che non si possano adottare strategie efficaci, anche se magari meno spendibili in campagna elettorale.
Per prima cosa chiamare l’”odio” con il suo nome. Chiamarlo razzismo quando si tratta di razzismo, sessismo quando si tratta di sessismo, omotransfobia quando si tratta di omotransfobia e così via; invece di girare intorno al problema parlando genericamente di “odio”, come se l’obiettivo fosse capirci tra pochi virtuosi su un insieme di mali che è cattiva educazione nominare, denunciare esplicitamente il problema con le parole che lo descrivono, poiché l’obiettivo è risolverlo.
Si noterebbe così che l’”odio” corrisponde a fattispecie di reato già previste e perseguite nel nostro ordinamento. La maggior parte degli utenti che esprimono posizioni discriminatorie in modo violento sui social network non ha maturato le proprie opinioni in quello spazio (al massimo le ha consolidate grazie alla cassa di risonanza dei suoi contatti e dei contenuti fruiti), bensì ha trovato nei social network una piattaforma dove esprimerle in un contesto di virtuale impunità. A dissuadere da molti comportamenti violenti sui social network potrebbe bastare un richiamo alla realtà non virtuale, alla concretezza del gesto che si sta compiendo.
La legge forse non raggiunge abbastanza la rete, ma ciò non significa che non possa raggiungerla, senza che la rete sia vista come uno spazio d’eccezione da governare con misure marziali, oltretutto disegnate da quegli stessi legislatori la cui impreparazione di fronte al mondo di internet ha lasciato a colossi come Google e Facebook campo libero nel costruire la nostra percezione della rete a loro immagine e somiglianza.

Disarmare gli haters e il degenerare di una comunicazione sempre più violenta passa infatti anche per lo smettere di considerare i social network un servizio pubblico: sono piattaforme private le cui regole rispondono solo all’arbitrio dei proprietari e sono accettate dagli utenti prima di iscrivervisi; i colossi privati hanno tutto da guadagnare nel convincerci di fornirci un servizio di base per la nostra vita, e noi tutto da perdere nel crederci. Se un contenuto viene rimosso è fuorviante parlare di censura o sovrapporre la dinamica a quelle del dibattito pubblico, come avvenuto ad esempio nel caso di pagine neofasciste bloccate da Facebook, poiché si tratta dell’arbitrio di un privato secondo la propria convenienza.
Se molti utenti considerano i social network uno strumento di comunicazione essenziale, o anche solo la loro principale (se non unica) fonte di notizie e informazioni, il problema è nella cultura degli utenti, è antecedente alla veridicità o meno delle notizie o all’effetto “bolla” con della loro distribuzione, ma può e deve essere combattuto.
Smascherare i social network riconoscendoli come spazi privati suggerisce di per sé parziali strumenti di pressione nei loro confronti: essere uno spazio aggregativo di estrema destra dovrebbe causare un danno di immagine al quale forse un privato è interessato a reagire, se la pena è una massiccia perdita di utenti – mentre il beneficio materiale di sottrarre uno strumento aggregativo all’estrema destra prescinde dalle caratteristiche dello strumento.

Ma il vero, gigantesco elefante nella stanza di cui bisogna assolutamente iniziare a parlare è la cultura cui certi messaggi e comportamenti appartengono. Un messaggio razzista violento è solo parzialmente peggiore di un messaggio razzista pacato; concentrarsi sulla forma può far perdere di vista la pericolosità dei contenuti.
Le discriminazioni e le violenze ad esse collegate, anche se in alcune forme facilitate dai social network, sono saldamente radicate in una realtà storica della quale internet è solo una dimensione, avallate e nutrite da discorsi forse non violenti nella forma, ma certo compiacenti nei contenuti; la battaglia contro questa cultura è probabilmente la più difficile, ma non può essere rimandata.


Immagine di Karen Allen (dettaglio) da needpix.com

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Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/2689-silvia-d-amato-avanzi.html
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