La prima parte dell’articolo qui
Dopo le dovute premesse arriviamo all’aspetto più strettamente giurisdizionale, ovvero a come viene disciplinata l’identità di genere e in particolare la transizione di sesso dal punto di vista della giurisprudenza. La legge di riferimento in materia di rettificazione del sesso è la legge 164/1982, il che già suona abbastanza assurdo considerato che quella normativa risale a quasi quarant’anni fa. L’articolo 1 di tale legge dichiara che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni sui suoi caratteri sessuali”.
Si dichiara dunque che la rettificazione del sesso – e dunque la modifica dei dati anagrafici – deve avvenire dopo la cosiddetta ri-attribuzione chirurgica del sesso poiché l’articolo 35 della legge prescrive la corrispondenza tra il nome anagrafico e il sesso, compromettendo così il diritto della persona transessuale che non si è sottoposta e non vuole sottoporsi a un intervento demolitivo e ricostruttivo a scegliere il nome che desidererebbe avere. Tuttavia la Corte costituzionale, con la sentenza n. 221/2015, “non ritenendo più indispensabile l’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica del sesso, ha affidato al magistrato la valutazione finale sulla sua effettiva necessità. Il contributo, pertanto, intende riflettere sulla funzione dell’Autorità giudiziaria nel procedimento di rettificazione sessuale, come prevista dalla legge n. 164/1982 e oggi ancora di più implementata dalla decisione della Consulta” (1).
Vi sono in effetti degli esempi positivi in materia di rettificazione anagrafica del sesso in assenza di mutamento di sesso tramite intervento chirurgico, come quello di una sentenza positiva risalente al 21 aprile del 2017 in cui il Tribunale di Mantova ha sancito l’immediata rettificazione dell’atto di nascita con modifica del nome da maschile a femminile pur in assenza di un cambiamento chirurgico del sesso, affermando che “vedere su carta un nome che corrisponde alla propria vera personalità, è funzionale al conseguimento del pieno benessere psicofisico”(2). Da questo punto di vista si apre un quadro giuridico abbastanza complesso che in progressiva evoluzione, ma senza mancare di contraddizioni e aspetti oscuri e irrisolti, pone via via maggior rilievo al diritto della persona al riconoscimento della propria identità di genere anche in assenza di interventi di demolizione e ricostruzione dei caratteri sessuali primari. Tuttavia, come vedremo, nelle varie argomentazioni rimane la presenza degli interventi medici e dei trattamenti ormonali. Ma, tornando alla formulazione del legislatore, cosa si intende per caratteri sessuali? L’articolo 31 del d.lgs 150 del 2011 vi fa di nuovo riferimento al comma 4 che recita: “quando (3) risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante intervento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”.
Il problema, ha detto Angiolini, resta quello di stabilire quali siano i criteri per l’identificazione del sesso di una persona e, di nuovo, come occorre interpretare il termine “caratteri sessuali”. In una prima argomentazione della giurisprudenza si intendono i caratteri sessuali come i cosiddetti caratteri sessuali primari, che la scienza biologica identifica come quelli genitali e riproduttivi, distinguendoli dai caratteri sessuali secondari che corrisponderebbero ad altre caratteristiche fisiche e psichiche come la conformazione del corpo nei suoi tratti, il timbro vocale, gli atteggiamenti percepibili dall’esterno etc. Spesso nelle pronunce che adottano tale tipo di lettura dei caratteri sessuali c’è un riferimento alla “funzionalità” dell’intervento demolitorio e/o modificativo dei caratteri anatomici primari e dunque la giurisprudenza in questo caso va ad indagare in maniera anche abbastanza invadente l’efficacia dei “nuovi” organi genitali, va ad esempio a indagare la presenza o meno di sterilità. Con un approccio anche molto invasivo si va dunque a verificare l’esito dell’intervento in termini di aderenza fisica della persona trans al sesso di destinazione. Ad ogni modo, qui assistiamo alla considerazione del sesso come un dato oggettivo inscritto nel corpo che “giustifica” tutta una serie di analisi, invasive, morbose, dettagliate, da parte della giurisprudenza per indagare l’efficacia dell’operazione in termini di funzionalità o meno del “nuovo” corpo. Un altro orientamento giurisprudenziale individua il trattamento chirurgico come indispensabile e necessario solo quando assicura al soggetto transessuale uno stabile equilibrio psicofisico, ovvero quando il soggetto trans reputa che sia opportuno all’interno del suo percorso sottoporsi anche a un intervento chirurgico.
La Corte Costituzionale ha definitivamente chiarito che “la legge ha escluso la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”(4) e ha affermato che è invece necessario “un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona”(5).
E ancora [la Corte Costituzionale] “ha riconosciuto che nell’alveo dei diritti inviolabili, sanciti dall’articolo 2 della nostra Costituzione, vi sia “il diritto a realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità», […] sia il diritto alla libertà sessuale, poiché, «[e]ssendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto» (sentenza n. 561 del 1987). Pertanto, l’art. 2 Cost., come l’art. 8 CEDU, riconosce e tutela il diritto all’identità di genere, nel senso che […] ogni persona ha il diritto di scegliere la propria identità sessuale, a prescindere dal dato biologico”(6).
Angiolini ha voluto però sottolineare che rimane comunque necessario all’interno di questo tipo di argomentazione il trattamento ormonale. Si assiste progressivamente a un’evoluzione e in alcune pronunce si arriva all’affermazione secondo cui l’identità di genere è costituita da tre componenti – il corpo, l’autopercezione e il ruolo sociale – e che quindi non si può affidare il giudizio solamente alla dimensione biologica dell’individuo.
Si arriva quindi ad alcune pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale che rivoluzionano un po’ il quadro di partenza in quanto, sottolineando la priorità dell’identità di genere, dichiarano, come abbiamo visto precedentemente la non necessità dell’intervento chirurgico per la rettificazione del sesso (“la rettifica del sesso nei registri anagrafici non è subordinata ad un intervento demolitorio e/o modificativo dei caratteri anatomici primari, ritenendosi sufficiente l’acquisizione di «una nuova identità di genere» frutto di un processo individuale che attesti la serietà e l’univocità del percorso scelto”(7)) ma al contempo stabiliscono come necessario l’adeguamento al sesso di destinazione.
Se però non è più necessario il trattamento chirurgico e di conseguenza l’adeguamento degli organi genitali e dell’apparato riproduttivo fin quanto possibile, quali sono i criteri che ci confermano l’appartenenza del soggetto al sesso di destinazione? La Corte di Cassazione afferma che “è ineludibile un rigoroso accertamento della scelta sulla base di criteri desumibili dagli attuali accordi condivisi della scienza medica psicologica. Inoltre afferma che c’è bisogno di un percorso né breve né privo di interventi modificativi delle caratteristiche somatiche ormonali originali”.
Ciò significa che il trattamento ormonale rimane necessario. Infatti si dichiara che un giudice “deve svolgere un accertamento rigoroso del completamento del percorso” e che “c’è bisogno di bilanciare il diritto all’identità di genere e l’interesse di natura pubblicistica a far chiarezza sulla identificazione dei generi sessuali delle persone transessuali”.
Sorge spontanea una domanda che la giurisprudenza lascia irrisolta: come si fa a decidere quando il percorso è completo? Come si fa a parlare di completamento riguardo a qualcosa di così soggettivo e individuale come la propria identità? E, inoltre, come si fa a sancire la definitività del percorso escludendo aprioristicamente, ad esempio, la possibilità di un percorso di nuovo inverso? La Corte Costituzionale segue lo stesso orientamento della Corte di Cassazione, con la sola differenza di un’impostazione quantomeno più sensibile e più radicata sui diritti fondamentali e quindi facendo maggiormente riferimento alla salute e all’autodeterminazione della persona.
Vi è inoltre, ha spiegato Angiolini, un secondo intervento della Corte Costituzionale del luglio 2017 in cui quest’ultima esclude che sia sufficiente il solo percorso volontaristico ribadendo ancora una volta la necessità del trattamento ormonale. In questo quadro si inserisce una sentenza della Corte Edu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che, progressivamente, giunge ad affermare con maggiore incisività la non necessità dell’intervento chirurgico.
L’ultima sentenza risale al 18 luglio del 2018 e quindi potrà forse avere un impatto ulteriore rispetto alla giurisprudenza di merito, anche perché la Cedu ha un approccio molto fondato sulla prospettiva del soggetto transessuale, assumendo cioè un’impostazione che attribuisce una significativa importanza al principio dell’autonomia personale, cosa che la Corte di Cassazione sembra attribuire a livello formale ma, bilanciando – e dunque, in qualche modo, compromettendo – l’interesse e l’autonomia della persona con l’interesse pubblico. La giurisprudenza di merito più recente segue di base quella che è la sentenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale ma non sempre fa riferimento all’irreversibilità del percorso (spesso c’è un riferimento alla definitività ma non sempre, appunto, alla irreversibilità).
Sulla base di questo quadro giurisprudenziale ben delineato da Chiara Angiolini, si può evincere la presenza di due filoni argomentativi: un primo filone individua, non senza pretese di (impossibile) oggettività quali sono i caratteri sessuali in base a cui il giudice valuta con un ragionamento molto drastico se il cambiamento c’è stato o meno e poi decide; l’altro filone è quello per cui il giudice nel definire quali sono i caratteri sessuali necessari deve bilanciare l’interesse della persona trans e l’interesse pubblico.
Questo bilanciamento incide sulle definizioni di sesso e genere che le Corti, o anzi, che l’intero ordinamento, danno. In realtà, come chiarisce Angiolini, non c’è una definizione positiva fornita dall’ordinamento ma questo “vuoto definitorio”, non impedisce tuttavia alla giurisprudenza di fondare le sue decisioni su una nozione di sesso e genere.
La domanda che sorge spontanea, non solo da un punto di vista giuridico ma anche di buon senso è se esista una nozione oggettiva di sesso e genere, e, in caso di risposta negativa, chi ha il diritto di definire che cosa sono sesso e genere?
La dottrina giuridica fa riferimento, come ha fatto notare Angiolini, a diverse argomentazioni – che rispecchiano anche il sentire di ciascuno – tutte di natura extra-giuridica: c’è chi fa riferimento alla nozione di “natura” e afferma che “la natura è la misura critica della costituzione dell’identità sessuale” (i giuristi sanno però che quando si fa riferimento alla natura spesso c’è qualcosa dietro che si sta cercando di rendere oggettivo), cercando di trovare “un’impossibile definizione della quantità minima ed essenziale di femminilità e mascolinità da cui ricavare il livello minimo di trattamenti indispensabile” (Barbara Pezzini).
L’argomento che usa la natura quale metodo di valutazione sembra sia usato per cercare di rendere obiettiva una scelta e per tracciare una (impossibile) definizione di quali siano i confini tra i due sessi che forse è invece convenzionale.
Un’altra teoria che viene richiamata dalla dottrina giuridica è quella della distinzione tra sesso e genere, in cui – semplificando mondo – il sesso si riconduce a un dato biologico e anatomico e il genere a norme sociali e culturali. Qui si apre però una critica svolta all’interno delle stesse scienze sociali secondo cui si sostiene che il “sesso è da sempre genere in quanto il corpo è di per sé una costruzione e non si può dire che i corpi abbiano un’esistenza dotata di significato prima che siano marcati dal punto di vista del genere”.
Se vogliamo cercare ulteriori discipline che in maniera autorevole definiscono il sesso e il genere (dato che il diritto, come abbiamo visto, non li definisce) possiamo prendere in considerazione due più grandi manuali in materia di psichiatria che definiscono in modo diverso la “disforia di genere”.
Nell’ultima versione del manuale redatto dall’Oms il transessualismo, come abbiamo visto, non fa più parte dell’elenco delle malattie mentali dove vi è il solo riferimento alla “disforia di genere” e all’inizio dell’altro manuale elaborato dall’Associazione di psichiatria americana si afferma che “l’ambito del genere e del sesso è molto controverso e dà vita a una proliferazione di termini il cui significato varia non solo nel tempo ma anche all’interno di una stessa disciplina e fra una disciplina e l’altra”.
Dunque la pretesa oggettività dei criteri di ascrizione di una persona a un sesso e/o a un genere si dimostra quantomeno problematica proprio a causa della pluralità di definizioni e interpretazioni che si possono scegliere e che il giudice arbitrariamente sceglierebbe. La definizione risulta per tanto convenzionale, e non oggettiva né oggetivabile.
Ma, di nuovo, pur avallando la convenzionalità di una possibile definizione ci si trova a chiedere ancora una volta quali siano i criteri per orientare questa definizione e quali siano i soggetti che hanno il potere di elaborare e dare questa definizione.
Angiolini prosegue dicendo che le Corti fanno riferimento, come abbiamo visto, al bilanciamento tra il diritto della persona trans alla propria identità di genere e l’interesse pubblico.
All’interno di questo bilanciamento una componente imprescindibile è quella del rapporto tra la persona e il proprio corpo, rispetto al quale sia la Corte di Cassazione che la Corte Costituzionale si richiamano all’autodeterminazione e alla salute della persona: bisogna cioè, secondo la Corte Costituzionale, “far prevalere la salute rispetto alla corrispondenza tra sesso anatomico e sesso anagrafico e quindi non si può subordinare la rettificazione – che è espressione dell’autodeterminazione del soggetto – a un intervento chirurgico”.
Ma allora tutti gli altri trattamenti medici, i trattamenti ormonali e i trattamenti psicologici e psichiatrici sono necessari? Si può subordinare un diritto all’identità di genere a questo tipo di trattamenti? Ci si può allora chiedere chi può concorrere a definire l’identità della persona.
È sufficiente richiamarsi solamente all’articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto alla salute (8) (e che ovviamente è un diritto forte e imprescindibile) o forse entra in gioco anche la libertà personale, sancita dall’articolo 13 della Costituzione che ne dichiara l’inviolabilità?
La dottrina giuridica interviene sottolineando come la questione dell’identità di genere faccia emergere la relazione tra corporeità e intenzionalità ed è stata portata avanti una riflessione che prende in esame il soggetto astratto di diritto e il corpo affermando che “il mio corpo non è uno strumento di me ma è piuttosto ciò che mi permette di utilizzare qualsiasi strumento. In questo senso posso concludere che io sono il mio corpo”.
Forse, ha fatto detto Angiolini, “la libertà nell’esistere, la costruzione e l’estrinsecazione della personalità di ciascuno si connettono con il corpo e con l’essere e che il corpo lontano dall’essere un mero oggetto della decisione volontaristica, partecipa alla formazione stessa della volontà”. Dunque la libertà del corpo e la sua affermazione più adeguata come espressione della volontà e dell’autodeterminazione del soggetto può essere considerata una parte fondamentale della libertà personale sancita al già citato articolo 13. Libertà personale, salute e autodeterminazione che però, come abbiamo visto, secondo l’ordinamento giuridico, devono esser bilanciate dall’“interesse pubblico alla certezza del genere”.
Quest’ultimo secondo la Corte di Cassazione è un interesse di natura pubblicistica alla chiarezza e all’identificazione dei geni sessuali anche in rapporto alle indicazioni che ne possono susseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali. Questo interesse, secondo la Cassazione, costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al riconoscimento del diritto al mutamento di sesso.
Ancora una volta siamo portati a domandarci che cosa significhi questo interesse pubblico alla certezza del genere? Lo si può forse affidare a soggetti terzi in contatto con la persona trans che potrebbero essere il coniuge, i figli e la generalità dei soggetti – seguendo l’impostazione della Corte di Cassazione.
Ma, anche provando a seguire questa impostazione, emergono non poche obiezioni: rispetto alla “generalità dei soggetti”, considerando che il diritto è una scienza formale e quindi una volta che pone criteri e delle regole per dare definizioni, non sembra che attribuire alla sola persona trans la possibilità e il diritto di definirsi rispetto al proprio genere anche senza un accertamento dei suoi caratteri sessuali possa in qualche modo ledere la generalità dei soggetti; rispetto poi alla genitorialità il problema non sussiste in quanto, ha chiarito Angiolini, l’ampliamento della possibilità di rettificazione anagrafica non muta in maniera consistente l’equilibrio dell’ordinamento; infine rispetto al coniugio e al matrimonio – aspetto che desta le preoccupazioni di una parte della dottrina che si ascrive al pensiero cattolico – l’articolo 1 della legge 76 del 2016 ha creato dei meccanismi di relazione fra il matrimonio e l’unione civile in quanto al comma 27 del suddetto articolo stabilisce che “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Perché in definitiva l’interesse di soggetti terzi dovrebbe bilanciare il diritto della persona al riconoscimento e all’autodefinizione della propria identità di genere, ledendo la libertà della parte attrice stessa, della persona “protagonista” della propria identità di genere?
Risulta difficoltoso dunque individuare e concretizzare i profili di interesse pubblico alla certezza dell’identità di genere poiché si pone in contrasto con il diritto all’identità personale e all’autodeterminazione. Forse questo bilanciamento non serve.
Alla luce di questo quadro giuridico non privo di contraddizioni e nodi irrisolti, primo fra tutti, appunto, questa “esigenza” di bilanciamento con l’interesse pubblico di terzi, si può concludere citando le stesse parole di Angiolini riguardo alla scoperta dell’identità di genere e del fenomeno del transessualismo: “l’apparenza fisica non può essere slegata dall’autopercezione e dalla relazione che si sviluppa con la società e con le sue norme comportamentali concernenti la sfera della sessualità in un’interazione costante tra cervello, corpo, esperienza.
La più aggiornata concettualizzazione del transessualismo si richiama ad un paradigma complesso in base al Giurisprudenza 138 quale l’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali influenza la costruzione dell’identità di genere.
La chirurgia in tale prospettiva non è necessariamente la soluzione ma solo un eventuale ausilio per il benessere della persona.
Se si perde di vista questa prospettiva socioculturale da cui emerge la domanda di giustizia non si può procedere ad una corretta interpretazione delle norme.
Un’interpretazione letterale che non tenga conto dell’evoluzione scientifica e della conoscenza del fenomeno del transessualismo, preso in considerazione dal legislatore 30 anni orsono, finisce per tradire la ratio della legge, ben espressa dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 161 del 1985 che richiamandosi all’art. 2 Cost., riteneva espressione dei doveri di solidarietà sociale rispettare le persone transessuali nel loro desiderio di vivere armoniosamente il loro essere in relazione con gli altri anche attraverso la modificazione degli atti anagrafici” (9).
(1) http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-2_27.pdf.
(3) Il termine “quando” va interpretato alla luce del contesto storico in cui è stata emanata la legge, ovvero facendo spesso riferimento a quei soggetti che si erano già sottoposti a un intervento demolitorio e/o ricostruttivo degli organi genitali o non ne avevano bisogno per ragioni congenite.
(5) Ibidem.
(6) file:///C:/Users/Toshiba/Downloads/Corte_cost_180_del_2017.pdf.
(7) Cass. 15138/15 (conforme Cedu 10.3.15, Affaire Y.Y. c. Turquie
(8) “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
(9) http://www.rivistafamilia.it/wp-content/uploads/2016/07/9_Angiolini_giur.pdf
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.unipi.it
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.