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27 Marzo 2020

Genealogia dell’ordoliberalismo – 3. L’uomo come impresa individuale

Alessandro Zabban Umanistica e sociale

Qui la parte 1
Qui la parte 2

Abbiamo visto nell’articolo precedente come il neoliberismo di matrice tedesca non sia un banale ritorno alle concezioni ottocentesche del laissez faire quanto piuttosto la ricerca di un nuovo ruolo e di un nuovo attivismo dello stato, non più incaricato di redistribuire le risorse ma bensì di garantire il funzionamento di una economia di mercato vista non come naturale ma come un artificio complesso e delicato in cui ingranaggi devono essere continuamente lubrificati dall’intervento statale.
Ma un nuovo protagonismo pubblico non basta, occorre ripensare anche la società e occorre ripensarla dal punto di vista del mercato. Un nuovo ordine economico fondato sul meccanismo della concorrenza non può reggere se le comunità umane provano a resistere alle sue logiche. Non si può pensare di far funzionare un sistema fondato sulla competizione permanente se gli individui si oppongono alla società mercantilista e se indugiano in atteggiamenti solidaristici o collettivisti. Persino nelle moderne società industriali avanzate, il rifiuto di conformarsi completamente ai meccanismi economici cari a Eucken e soci resta diffuso.
Compito dell’ordoliberalismo è quello allora di unire alla politica economica una Gesellschaftspolitik, ovvero una politica della società (piuttosto che una politica sociale) volta a proporre un modello bio-economico che conformi l’individuo al meccanismo della concorrenza e alla logica dei mercati.

Nel loro ambizioso e brillante saggio La Nuova Ragione del Mondo, gli studiosi francesi Dardot e Laval interpretano l’ordoliberalismo come una forma di razionalità che afferma l’interdipendenza di tutte le istituzioni e di tutti i livelli della realtà fra di loro. In particolare:
«tra gli obiettivi della politica è prevista una azione sulla società e sul quadro vitale individuale, che dovrebbe avere lo scopo di rendere i due piani conformi alle necessità del funzionamento del mercato. La teoria ordoliberale indica quindi un ridimensionamento della tradizionale separazione tra Stato, economia e società concepita dal liberalismo classico. Esso abbatte le barriere fra i vari piani, considerando tutte le dimensioni dell’uomo come elementi indispensabili al funzionamento della macchina economica»
(P. Dardot e C. Laval, La Nuova Ragione del Mondo, DeriveApprodi 2013, p. 221).

La parola chiave per molti economisti ordoliberali è quella di adattamento. Se il capitalismo, come sosteneva anche Marx, ha la capacità di rivoluzionare continuamente i modi e le strutture di produzione, dall’altro gli individui non si adattano spontaneamente a quest’ordine mutevole, perché le credenze culturali e le pratiche sociali tendono a cambiare molto meno rapidamente del mercato. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale e sociale complessiva: affinché la concorrenza funzioni, occorre trovare un nuovo sistema di vita per tutta l’umanità. L’adattamento va allora inteso come adeguamento dei modi di vita e delle mentalità alle condizioni di funzionamento di un sistema intrinsecamente variabile e fondato su un regime di concorrenza spietata e generalizzata, adattamento che concepito in questi termini necessita appunto di un intervento statale e giuridico capillare.

Ma quale sistema di vita si ipotizza? Che tipo di società auspicano gli ordoliberali? Non certo quella fondata sulle merci e sul consumo, già criticata da Sombart all’inizio del Novecento (vedi la I parte dell’articolo), che rischierebbe di riproporre quella società di massa, dello spettacolo e consumistica che per gli ordoliberali era un’aberrazione da attribuire all’interventismo statale che a sua volta era l’anticamera della degenerazione nazista. Al contrario, con le parole di Foucault:
«[l]a società regolata in base al mercato, a cui pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i meccanismi della concorrenza. Sono questi meccanismi che devono avere la superficie più estesa e il maggiore spessore possibile, che devono occupare inoltre il maggiore volume possibile nella società. Ciò significa che non si cerca di ottenere una società sottomessa all’effetto merce, bensì una società sottomessa alla dinamica della concorrenza. Non una società di supermercato ma una società d’impresa. L’homo oeconomicus che si vuole ricostruire non è l’uomo dello scambio, l’uomo consumatore, ma l’uomo dell’impresa e della produzione»
(M. Foucault, La Nascita della Biopolitica, 3a ed. Feltrinelli 2017, pp. 129-130).

Non l’uniformità della merce dunque, ma la molteplicità e la differenziazione delle imprese. Fra gli esponenti della corrente “sociologica” della Scuola di Friburgo, Röpke è sicuramente colui che ha dato il maggior impulso nel teorizzare la perfetta società di mercato. I suoi vagheggiamenti di una “economia umana”, in cui il tessuto sociale sarebbe composto da piccole e medie imprese agricole e artigianali secondo il modello dei villaggi della campagna di Berna, riflettono l’utopia di una società di liberi cittadini imprenditori che potendo scegliere in piena autonomia su come gestire la loro attività economica e le proprie strategie di consumo si emanciperebbero dall’omologazione che caratterizza le masse urbane proletarie. Se si vuole scongiurare una “società delle formiche” tipica del collettivismo socialista ma anche del capitalismo fordista, occorre, a detta di Röpke, generare quella libertà che solo un sistema di imprese in competizione può garantire. Per gli ordoliberali infatti la libertà va di pari passo con la concorrenza, vista, quest’ultima, non solo come il legame interindividuale più efficiente economicamente, ma anche come ciò che permette all’individuo di affermarsi come essere libero, autonomo e responsabile.
C’è dunque un progetto umanista di fondo, un tentativo di tratteggiare i contorni di un capitalismo in cui l’uomo, in quanto imprenditore di se stesso e della propria vita, si riapproprierebbe così delle sue facoltà soggettive autentiche. Gli individui che pensano come pensa un’impresa, cioè in termini di profitti, entrate/uscite, investimenti e quant’altro, non solo sono più produttivi ed efficienti ma sono anche più liberi e più propriamente umani. Siamo in presenza di una sorta di metafisica della concorrenza e del mito dell’impresa come fondamento di una società di individui liberi economicamente e politicamente.

Non è difficile notare da questo punto di vista delle ambiguità nel sistema teorico ordoliberale. Gli intellettuali di Friburgo, come abbiamo visto, si pongono il problema di una società che da una parte si uniformi alle regole del mercato e che dall’altra eviti le nefaste conseguenze in termini di massificazione, consumismo, urbanizzazione selvaggia, omologazione tipiche dei regimi capitalisti e socialisti a loro contemporanei. Una società in cui lo stato interviene non per redistribuire ma solo per garantire alla macchina economica di funzionare correttamente, una società in cui il legame sociale è mantenuto grazie alle logiche concorrenziali, una società in cui ogni individuo è libero in quanto proprietario e imprenditore, una società in cui l’autenticità si può ricostruire ridando dignità a un lavoro sottratto alla schiavitù della spersonalizzazione fordista, una società deurbanizzata e a misura d’uomo, è una società vista dagli ordoliberali come l’unico antidoto possibile alla decadenza spirituale. Ma il paradosso è che nel tentativo di sottrarre la società agli effetti negativi delle logiche di mercato, gli ordoliberali in realtà non fanno altro che proporre una società ancora più sotto l’effetto delle strutture economiche, poiché l’individuo viene ritagliato proprio sul modello del mercato, come un imprenditore della propria vita che deve ragionare in termini economicisti in ogni aspetto della sua esistenza.
Si è tentato di immaginare una società libera dalle degenerazioni del capitalismo ottocentesco e fordista, proponendo un modello in cui però ogni aspetto dell’esistenza si misura secondo criteri economici e che assomiglia molto più a un insieme atomistico composto da una molteplicità di individui in lotta fra di loro che al regno della libertà. Ciò che dovrebbe essere esterno al mercato, è in realtà proprio fatto su misura delle sue logiche. È ora più chiaro quello che vuole intendere Foucault: per cercare di sottrarre l’individuo alla mercificazione e alienazione, lo si è rinchiuso nella gabbia della logica concorrenziale e imprenditoriale.

Si forma così un nodo inestricabile laddove si vorrebbero mettere insieme due elementi inconciliabili, da una parte una società uniformata sul modello del mercato, dall’altra libera dai suoi effetti più negativi. Alla fine anche la variante sociologica di Röpke conduce verso una proposta in cui la società è del tutto in balia dei meccanismi economici. Non si sta parlando semplicemente di quella che Habermas denunciava come la colonizzazione dei mondi della vita da parte della razionalità strumentale e neppure tanto dei meccanismi che strutturano l’”uomo a una dimensione” di Marcuse: qua siamo in presenza di un progetto di trasformazione antropologica attivamente messo in pratica dalla fine degli anni settanta volto a realizzare un tutto concorrenziale in cui il criterio della competizione sia la logica di fondo non solo dell’economia ma anche della politica, della società, dell’esistenza dell’individuo a ogni livello e grado. L’obiettivo diventa il governo delle condotte individuali a partire dall’universalizzazione del modello dell’impresa.
Non si tratta di un complotto, né di un piano pensato a tavolino e messo in atto da un gruppo di studiosi e politici. Si tratta di alcune concezioni che sono diventate dominanti e che hanno prodotto specifiche pratiche e atteggiamenti, che peraltro non hanno un carattere di sistematicità ma che a seconda del contesto possono subire rallentamenti, deviazioni, interruzioni. Ne è prova il fatto che non tutte le ricette ordoliberali siano state realizzate e non tutte abbiano funzionato. Non c’è un soggetto onnisciente che pianifica ogni politica neoliberista e che ha sotto controllo tutti i suoi effetti, ma c’è una classe dirigente globale coadiuvata da specifiche istituzioni e da specifici think tank, che muove una lotta di classe dall’alto avvalendosi di una serie di strategie e di tecniche di varia natura per mantenere la sua egemonia.

Sicuramente molti esponenti della Scuola di Friburgo non sarebbero contenti di vedere il tipo di realtà sociale che si è venuta formando a partire dagli anni Ottanta. Non solo il sogno di una società come se la immaginava Röpke non si è mai potuto realizzare ma la governamentalità liberista non ha neppure messo un freno a quella mercificazione e omologazione consumistica che era il bersaglio della critica ordoliberale. Così, il mito della concorrenza generalizzata e totalizzante ha prodotto effetti ancora più profondi e radicali sull’essere umano di quanto gli stessi ordoliberali probabilmente si aspettassero. È sotto l’occhio di tutti come lo smantellamento del sistema previdenziale e la messa al bando delle politiche redistributive abbia creato un sistema in cui l’individuo è chiamato a un continuo calcolo individuale su tutto perché deve assumersi quei rischi di cui prima era lo stato a prendersi carico.
La privatizzazione del servizi e la commercializzazione virtualmente di ogni aspetto della realtà significano vedere la sanità e l’istruzione come un investimento che il singolo è chiamato a fare oppure no a seconda di un calcolo costi/benefici; allo stesso modo il nostro corpo, il nostro tempo, le nostre relazioni sociali e affettive devono essere massimizzate e ottimizzate secondo i medesimi criteri. Quella che apparentemente è una libera scelta è il frutto di un sistema concorrenziale generalizzato al quale non ci si può sottrarre se si vuole vincere la “partita” nella giunga neoliberista. Un mondo in cui se non sei continuamente attivo e intraprendente vieni declassato e sorpassato, obbliga a dover scegliere, a dover continuamente ricorrere a calcoli utilitaristici in ogni ambito. Un soggetto che non sia continuamente attivo e pronto a cogliere le migliori opportunità sembra inconcepibile. È la logica della micro-impresa individuale in un ordine di concorrenza perfetta che arriva a interessare finanche gli aspetti psicologici più profondi.
L’interiorizzazione di questi meccanismi concorrenziali e imprenditoriali, che vengono continuamente riattivati dalle narrazioni del Nuovo Management o dai guru della Silicon Valley, produce nuove forme di soggettività docili e disciplinate sia nel tempo libero, dove le energie sono rivolte alla scelta dei prodotti commerciali o affettivi migliori, che nel lavoro dove per il singolo lavoratore l’obiettivo è quello di raggiungere standard qualitativi sempre più alti, migliorare la propria “impiegabilità”, essere più produttivi degli altri in un sistema in cui i nuovi strumenti di valutazione sono sempre più capillari, specifici e individualizzati. Sotto il paraocchi ideologico della responsabilizzazione, dell’autonomia e della realizzazione di sé, si crea un meccanismo competitivo che comporta una corsa affannosa a raggiungere il massimo dell’efficienza produttiva infliggendo dei costi psicologici enormi in termini di ansia, stress e autostima, che vengono poi arginati il più possibile dai nuovi prodotti del benessere (palestra e attività fisica, corsi di meditazione, regimi dietetici, tecnologie di “quantified self”) che quella che il sociologo ed economista William Davies chiama molto puntualmente “l’industria delle felicità” è ben lieta di venderci.

Come affermano brillantemente Dardot e Laval, il neoliberismo non è un ritorno a un capitalismo senza regole, non è semplicemente distruzione regolativa, istituzionale e giuridica, è almeno altrettanto produzione di relazioni sociali, di forme di vita e di soggettività. Il neoliberismo punta a totalizzare, a fare mondo, tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Non è semplicemente una modalità di organizzazione economica ma anche una forma di governo dello stato, della società, delle condotte individuali.
Per questo l’obiettivo finale del neoliberismo, così come concepito dagli ordoliberali ma anche dai teorici della scuola austriaca, è quello di configurarsi come unica razionalità governamentale possibile, negando ogni possibile esternalità critica, ritenuta inammissibile. Il disegno egemonico avrà trionfato quando il neoliberismo si sarà imposto come una seconda natura, una normalità interiorizzata che impedisce anche solo di ipotizzare un’alternativa.

Pubblicato per la prima volta il 2 ottobre 2017

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Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/933-alessandro-zabban.html
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