Il primo regalo di questo 2022 è stata purtroppo la guerra in Ucraina: ancora non si sono spenti i riflettori sul Covid-19 – con tutto il corollario di conteggio delle vittime, guerra tra pro-vax e novax eccetera – che all’attenzione dell’opinione pubblica si è presentato un nuovo, succulento evento: la Russia di Putin ha attaccato l’Ucraina.
Al di là delle considerazioni di geopolitica, e della sacrosanta condanna della guerra, credo sia interessante concentrarsi su come questo conflitto venga raccontato ormai da una settimana. Fin dai primi momenti è apparso davanti agli occhi dei fruitori di notizie una sequela di racconti che non solo puntano – come due anni di pandemia ci hanno purtroppo abituati – a far schierare o da una parte o dall’altra della barricata (o con la Russia o con l’Ucraina), ma soprattutto a scatenare la compassione di coloro che cercano informazione su quanto sta accadendo relativamente lontano da loro.
Sembra che, soprattutto sui social network, non si possa raccontare la guerra senza raccontare ossessivamente episodi strappalacrime che riguardano gli aggrediti: dalla bambina che è nata da noi in Italia dopo la fuga della madre incinta alle lacrime del soldato cui è stata data la possibilità di telefonare alla mamma.
Il lavoro del giornalista sembra che non si possa limitare – o allargare – a raccontare i fatti, magari cercando di contestualizzarli e spiegarli, per quanto possibile: è indispensabile coinvolgere chi legge, farlo sentire come se fosse lì, in Ucraina, nelle zone dove si combatte.
Si vuole a tutti i costi dire “quelle vittime potremmo essere noi”: ma lo scopo non è cercare di rendere le persone più compassionevoli e pronte ad aiutare. Quello che chi scrive su una delle tante testate soprattutto online vuole è portare le persone a mettere una qualche reazione al post, a fare un commento (anche un banale “RIP”) e magari a condividere la notizia. Tutto questo per aumentare l’attenzione ed il traffico sulla testata che ha riportato la notizia, così da aumentare la visibilità della pagina anche per le notizie che saranno pubblicate in futuro.
Per arrivare a questo risultato non viene risparmiato nulla al pubblico della Rete: orfani, madri che tentano di strappare i figli ai combattimenti al fronte, neonati martoriati… tutto fa click. Ovviamente non ci si può fermare alla parola scritta, perché questa potrebbe non essere sufficiente a farci immergere nello scenario di guerra, ma ormai la tecnologia ci ha regalato tantissimi mezzi per raccontare quello che “deve essere” raccontato: largo ai video che riprendono minuto per minuto – come nella telecronaca di una qualsiasi partita di un qualsiasi sport – i bombardamenti, e ci raccontano che cosa viene colpito ma soprattutto ci fa conoscere chi sono le vittime, quanti anni hanno, cosa facevano nella vita, quali erano i loro sogni spezzati dalla barbarie bellica.
Ci vengono mostrati volti di bambini straziati, di anziani cui insieme alla vita è stata strappata la dignità, di donne portate via alle loro case, ai loro affetti, ai loro bambini. Ci viene raccontato di padri chiamati a combattere proprio nel momento in cui stavano per assistere alla nascita dei loro figli. Per ognuno di questi volti ci viene permesso di entrare nelle loro case, nelle loro camere, di frugare nei loro cassetti, di sbirciare i loro pensieri più segreti.
Oltre alla volontà di infiammare il chiacchiericcio – o ancora meglio la litigiosa discussione – intorno a quello che sta accadendo, si osserva la volontà di fare ricorso ad ogni mezzo per acchiappare l’attenzione dell’opinione pubblica, per tenerla incollata alla pagina di una determinata testata, come se si stesse trasmettendo un film thriller del quale si vuol conoscere il finale, si vuol capire chi è il colpevole.
In tutto questo spesso si perde l’oggettività e la veridicità dei fatti narrati: per smania di catturare l’attenzione del target spesso non si bada molto alla fonte della notizia, e magari non ci si accorge se questa è stata in qualche modo raccontata male. Anzi, se qualche dettaglio manca all’appello, non ci si fa scrupolo di aggiungerlo, di “romanzare” il materiale che poi verrà dato in pasto al popolo del web, perché ognuno si senta libero di mettere “mi piace”, commentare e condividere a piacimento.
Ancora una volta l’infotainment la sta facendo da padrone in TV, sui giornali e soprattutto sui social network: il pubblico sembra non essere capace di seguire una notizia seria, ma appare sempre e comunque bisognoso di trovare una trama – tragica, romantica, di qualsiasi genere – cui aggrapparsi, un filo da seguire, qualcosa che lo costringa a trattenere il fiato e a correre a cambiare canale quando un notiziario si interrompe, smanioso di arrivare per primo a vedere cosa accade nella nuova puntata.
Con queste premesse quale potrà essere il futuro dell’informazione? personalmente credo sia urgente fare un salto di qualità, non solo quando si tratta di raccontare una guerra, ma ogni singolo episodio che finisce in pasto ai mezzi di comunicazione. Chi si occupa professionalmente di fare informazione non dovrebbe mai e poi mai indulgere ad usare la sua penna per creare attenzione morbosa intorno a quello che racconta, ma dovrebbe anzi avere il controllo della materia, a partire dalle parole che decide di usare, fino ad arrivare all’assoluta necessità di educare anche chi legge a porsi in uno stato d’animo rispettoso verso la notizia e verso i suoi protagonisti. Meglio che un articolo venga letto da qualche lettore in meno piuttosto che “scalare le classifiche” sacrificando l’etica del raccontare.
Immagine: prima pagina The Times 3.03.2014 (dettaglio)

Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.