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13 Ottobre 2020

In che condizioni versano le democrazie liberali?

Dieci Mani A Dieci Mani

La democrazia è, per definizione, strumento di partecipazione di massa alla vita politica di un paese, di condivisione delle responsabilità decisionali attraverso strutture atte a favorire il massimo coinvolgimento. Ma, giudicando dal panorama mondiale, si ha l’impressione che i meccanismi messi in moto nel dopoguerra nei diversi stati si stiano tutti, uno dopo l’altro, inceppando: i partiti hanno cessato di essere spazio di partecipazione collettiva e di formazione e selezione della classe dirigente, il rapporto tra cittadini e politica si sfilaccia, cresce la delusione che evolve in un pericoloso desiderio di leaderismo, si osserva il crescere dell’autoritarismo anche in paesi considerati (più o meno a ragione) democrazie compiute.


Leonardo Croatto

Un errore di lettura che appare sempre più diffuso è quello di considerare la democrazia esaurita con l’esercizio del diritto di voto e la sua estensione a tutta la popolazione di uno stato. Da questa errore di percezione discendono altre valutazioni che – strumentalmente – vengono promosse come elementi qualitativi della democrazia: la solidità degli esecutivi, l’accesso più agile agli incarichi politici, la rapidità nella produzione normativa, l’identificabilità dell’azione collettiva con le biografie individuali.
E’ da tempo in corso, cioè, un attacco alla democrazia che non si manifesta più, almeno nelle democrazie occidentali, attraverso l’uscita dei militari dalle caserme, ma si realizza tramite una narrazione distorta del funzionamento della partecipazione democratica:l’impegno civile dell’esercizio dell’azione politica viene compresso alla sola cessione della delega.
All’opposto, la democrazia si sostanzia nella diffusione degli strumenti organizzativi e culturali che consentono ai cittadini di partecipare attivamente alla vita politica di un paese: educazione scolastica obbligatoria, stampa libera, partiti solidi e strutturati capaci di formare e selezionare la classe dirigente e contestualmente di trasferire verso il basso una parte della responsabilità decisionale attraverso meccanismi di partecipazione diffusa e di relazione con i rappresentanti eletti.
La spettacolarizzazione dei momenti elettorali secondo il format dei reality show è l’esatto opposto del lavoro quotidiano e costante che la democrazia sostanziale carica sulle spalle di ogni singolo cittadino.Il lungo lavoro dei teorici dei partiti leggeri, della riduzione del numero dei partiti, delle elezioni come momento immediato di nascita del governo, del rafforzamento degli esecutivi comincia a produrre i suoi frutti, e, come sempre in occidente, le cose negli Stati Uniti si compiono sempre con un po’ di anticipo, e poi arrivano in Europa.


Piergiorgio Desantis

Esistono ben poche istituzioni che, dopo la grande spinta alla democratizzazione post-seconda guerra mondiale, non siano entrate in una profonda fase di crisi in Occidente. Un famoso storico inglese, Donald Sassoon, individuava nelle società liberali occidentali una serie di “sintomi morbosi” (da cui il titolo del suo ultimo libro pubblicato per Garzanti in Italia). Si individuavano alcuni tra questi oltre al populismo (fenomeno più che consolidato negli anni) anche le sempre più evidenti manifestazioni razziste e xenofobe. Per la verità, c’è tutta una serie di eventi che rimandano alla mente tristi e neri presagi e che danno l’idea di trovarsi in un momento cruciale di passaggio e quindi di crisi. Tale passaggio è contraddistinto dall’aumento macroscopico e facilmente percepibile delle disuguaglianze, sia tra Stati, sia all’interno delle nazioni stesse. Bisogna anche ricordare che sono ormai almeno quarant’anni dal momento in cui le esigenze del libero mercato si impongono de plano sulle istituzioni e sul processo democratico stesso. È fin troppo semplice che le trasformazioni già in atto e ancor più amplificate dalla pandemia investano la tenuta della democrazia stessa in Occidente. Allo stesso tempo, è facile immaginare che forze reazionarie e xenofobe si trovino a sfruttare situazioni di emergenza e di crisi per sortire e sovvertire le istituzioni stesse. Ecco perché è sempre più necesserio ripensare e ricostruire robusti anticorpi ossia corpi intermedi che vivano e resistano alle tentazioni da “pieni poteri” che facilmente si riaffacciano.


Dmitrij Palagi

Nell’incontro con la Presidente della Repubblica Ellenica, in visita ufficiale in Italia, il Presidente della Repubblica Italiana avrebbe dichiarato: «La libertà non è un fatto esclusivamente individuale, ma si realizza insieme agli altri, richiedendo responsabilità e collaborazione» (fonte Il Messaggero).
A luglio, lo stesso capo dello Stato italiano aveva invitato «a non confondere la libertà con il diritto di far ammalare altri».A fine settembre la massima autorità della Repubblica italiana era intervenuta con una frase che è stata ritenuta una risposta alle affermazioni del primo ministro del Regno Unito, secondo il quale la differenza tra il suo paese e altri sarebbe stato l’amore per la libertà. Queste le parole di Sergio Mattarella, riportate ampiamente dalla stampa nazionale: «amiamo la libertà ma anche la serietà».Le democrazie liberali sono impostate su un ruolo fondamentale delle libertà. Il dibattito politico e filosofico attorno a questa categoria è sicuramente poco attuale. Di stretta contingenza è però il contesto di una dimensione collettiva che ha una rilevanza anche al fine di tutela l’incolumità delle singole persone.
La pandemia Covid-19 ha rappresentato, specialmente nella sua prima fase, anche l’occasione di riflettere su quanto la politica incida o almeno possa incidere nella concreta quotidianità di ogni essere vivente. Se il capitalismo è definito anche in base alla sua capacità di rigenerarsi e inglobare le critiche che lo mettono in difficoltà, le democrazie liberali sembrano da tempo incapaci di ripensarsi.
L’emergenza sanitaria sembra aver messo in secondo piano i pericoli economici e sociali. Almeno in Italia, dove questa considerazione può essere desunta dall’esito delle elezioni regionali e da una presunta ricerca di profili moderati all’interno delle principali coalizioni politiche italiane (con uno spostamento del profilo di Salvini, pronto a richiamare l’urgenza di una fantomatica rivoluzione liberale).Il compromesso occidentale del secolo scorso, nato all’interno di una guerra fredda che segnava gli orizzonti di significato del dibattito pubblico, era nato da una vita organizzata da spazi in cui le individualità non erano schiacciate solo sul mercato.Oggi così non è più e la tendenza pare in una fase matura, che non accenna ad arrestarsi, nonostante le numerose crisi.
La democrazia liberale, fondata sulle organizzazioni sindacali, partitiche e associative, oggi pare priva di adeguati strumenti, per poter contribuire alla discussione pubblica.
La questione però non può essere risolta sul piano meramente istituzionale, o partendo dalle soggettività in crisi (di qualsiasi natura esse siano, compreso in Italia l’esempio di Confindustria). Al centro andrebbe messa una lettura dell’economia e delle società, senza riduzioni pseudo-materialistiche, ma neanche riducendo tutto a un mero problema di involucri che si ripensano. È il mondo che sta cambiando a richiedere un adeguato cambiamento da parte della politica. Che sia liberale o no, ma questo commento a dieci mani viene scritto in un paese che negli ultimi decenni si è sviluppato all’interno del quadro delle democrazie liberali e quindi questo è il campo che ci riguarda.


Jacopo Vannucchi

Il peggior nemico della democrazia in Occidente oggi non è tanto il potere economico che, nella metafora di Solone, è l’insetto grosso che sfonda la ragnatela invece di venirvi impigliato, quanto la base popolare di consenso di cui un tale potere gode.Si tratta, sia chiaro, di un consenso indiretto e figlio dell’ignoranza. Prendiamo la manifestazione “no mask” di sabato a Roma: alcune rivendicazioni dei partecipanti esprimono, in sé, aneliti democratici: la riduzione della diseguaglianza sociale, l’uniformità territoriale dei livelli di assistenza sanitaria, la sovranità popolare (leggi qui). Eppure queste rivendicazioni vengono declinate, nella pratica, nel contestare il sistema sociale non da sinistra, ma da posizioni di estrema destra. Al netto delle evidenti infiltrazioni, in questi sommovimenti, di forze neofasciste che fanno largo uso di demagogia sociale, è un fatto che il 70% dei votanti tre settimane fa ha scelto di affossare definitivamente la sovranità popolare votando Sì alla trasformazione dell’Italia in oligarchia di ricchi finanziatori. Più un ruolo da becchini che da assassini, certo: ma dà comunque l’idea della scelta di campo.Ho trovato illuminante anche un tweet con cui il senatore per lo Utah Mike Lee (repubblicano) ha detto che la democrazia di massa non solo non è l’obiettivo, ma può anzi ostacolare i veri obiettivi (pace e prosperità) (vedi qui). Sullo Washington Examiner ha poi precisato una distinzione settecentesca tra “democrazia” e “repubblica costituzionale” (leggi qui). Ciò che conta qui però non è la diatriba teorica, ma i grandi inganni che spesso vi sono a sinistra su questi temi. Anche a sinistra, infatti, si accetta troppo spesso l’idea liberale di poter definire “democrazia” uno Stato sulla base solo di due fenomeni: il suffragio universale e il pluralismo politico formale. Questa è una democrazia priva di contenuti sociali e che quindi non garantisce l’effettivo esercizio del potere (krátos) da parte del popolo (démos). Vediamo questa illusione all’opera, ad esempio, nel sostegno alle forze di opposizione in Bielorussia o in Venezuela. All’opposto, anche a sinistra sono considerati non democratici Stati con rapporti politici non contendibili, pur se in essi il potere è effettivamente esercitato dal popolo (es. Cuba).Perché dunque il popolo cade vittima di questi raggiri? In parte per la duratura credulità delle masse; ma oggi l’aggravante credo sia un’altra: il popolo si percepisce impotente, per cui si crede impotente per natura e senza scampo e rivolge quindi la sua rabbia contro la cosa più debole che trova a portata di mano, ossia le vestigia formali dello Stato democratico.


Alessandro Zabban

Se le democrazie occidentali sono in fase di deterioramento avanzato è anche perché negli ultimi decenni le logiche economiche hanno sempre più condizionato le scelte politiche e non viceversa. Siamo passati da un’economia di mercato a una società di mercato, in un clima in cui erano in pochissimi a denunciare quella che Habermas definiva la colonizzazione delle sfere della vita da parte della razionalità economica. Il potere democratico invece di aprire spazi di possibilità è in balia di una logica che fa coincidere l’essere umano con una azienda individuale, libera solo di avere successo o soccombere all’interno del regime concorrenziale della società/mercato. In questo contesto non c’è nessun vincolo al potere che i soggetti più forti possono ottenere. Non solo potere economico ma anche capitale simbolico e controllo delle narrazioni sociali e politiche. Così la democrazia diventa un mero simulacro, una cornice puramente formale dove il popolo, privato dei diritti sociali, in balia delle forze economiche e influenzato da ideologie ben celate e calate dall’alto, è solo chiamato a esprimersi in quel rituale, sempre più mediatico e spettacolarizzato, delle elezioni. Sistemi politici non formalmente democratici come quello cinese si stanno rilevando più adatti a rispondere alla sfide del presente, con un compromesso per cui le élite capitalistiche detengono il potere economico ma non quello politico. Si tratta di una condizione essenziale per garantire il potere popolare. Se l’Occidente non sarà in grado di compiere un processo simile, vedrà le proprie istituzioni democratiche erodersi sempre più velocemente, riducendosi a uno scheletro di valori liberali pietrificati non più in grado di dare una risposta soddisfacente a quali debbano essere i diritti e doveri del cittadino e dello Stato nella società globale del rischio, fra crisi sanitarie ed ecologiche.


Immagine da commons.wikimedia.org

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Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/125709-dieci-mani.html
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