Mi è capitato tra le mani il volumetto del filosofo camerunense, Achille Mbembe, Necropolitica e, sebbene il libro risalga al 2003, penso che la sua riflessione resti ancora molto attuale e interessante.
Mbembe, fondendo la sua riflessione su Arendt, Foucault, Agamben, Bataille, Gilroy sviluppa una sorta “di genealogia dei poteri di morte: figura emblematica della modernità, della razionalità e della nozione di sovranità, che in essi esprime la sua essenza più cupa”( dalla quarta di copertina).
La tesi di fondo di Mbembe, partendo dall’analisi – e dalla documentazione – dello schiavismo coloniale, prima, e neocoloniale dopo, dall’orrore dei campi di sterminio fino ad arrivare ai nuovi tipi di occupazione territoriale (si pensi alla questione dei territori palestinesi occupati militarmente, psicologicamente e, direi, ontologicamente, dato che l’occupazione stessa annulla l’esistenza, l’identità e persino il destino umano degli occupati), fino ad arrivare a una riflessione sugli atti terroristici, è, che non basta la nozione di biopolitica e biopotere per dar conto delle forme di sovranità attuali.
Per il filosofo e docente camerunense l’espressione ultima della sovranità consiste nella capacità di decidere chi può vivere e chi può morire, nel dare la vita o la morte, nel determinare chi sia degno di vita e chi non lo sia: “Esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come il dispiegarsi e il manifestarsi del potere”[1], cosa che si potrebbe anche condensare nella nozione, già citata, di biopotere di Michel Foucault. Ma, Mbembe, pur partendo da questo concetto, si chiede se esso sia in grado di dar conto “delle contemporanee forme attraverso le quali il politico, nei modi della guerra, della resistenza, o della lotta al terrore, fa dell’uccisione del nemico il suo obiettivo fondamentale e assoluto”[2].
Il saggio di Mbembe cerca proprio di dare una risposta a questa domanda così complessa, partendo anche dall’assunto che la guerra, e le sue forme derivate, sia un modo per “realizzare la sovranità come esercizio del diritto di uccidere”[3] e, se anche la politica può venire intesa come una forma di guerra, resta da chiederci quale sia il posto che viene dato alla vita, alla morte e al corpo umano, e a come questi vengano inscritti e ascritti nell’, e, all’ordine di potere. Per rispondere alla questione Mbembe lega la nozione di biopotere a quella di “stato di eccezione”, spesso discusso in relazione al nazismo, ai totalitarismi, ai campi di concentramento e sterminio che forse, più di ogni altra cosa, vengono rappresentati come “una metafora centrale della violenza sovrana e distruttiva e come segno estremo del potere assoluto del negativo”[4]. Anche per Hannah Arendt, citata da Mbembe “non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può essere mai del tutto compreso con l’immaginazione per la semplice ragione che essa sta al di là della vita e della morte”[5]. Come direbbe Giorgo Agamben, coloro che vi erano reclusi sono stati ridotti alla nuda vita, cioè “la vita uccidibile e i sacrificabile dell’homo sacer […] Un’oscura figura del diritto romano arcaico, in cui la vita umana è inclusa nell’ordinamento unicamente nella forma della sua esclusione (cioè nella sua assoluta uccidibilità)”[6].
Lo stato di eccezione è infatti indicativo di un paradosso insito alla sovranità stessa che si manifesta come sovrana eccedendo, appunto, lo stesso diritto che impone e che garantisce, di cui è, per usare un gioco di parole, sovrana. Nello stato di eccezione il sovrano si pone all’interno dell’ordinamento giuridico ma per annullarlo, o meglio, per sospenderlo, e dunque ponendosi al di fuori di esso, pur continuando ad appartenergli. Il sovrano, dunque, avendo “il potere legale di sospendere la validità della legge, si pone legalmente fuori legge. Ciò significa che il paradosso si può anche formulare in questo modo: «la legge è fuori di se stessa», ovvero: «io, il sovrano, che sono fuori legge, dichiaro che non c’è un fuori della legge»”[7]. Il paradosso emerge in maniera ancor più radicale se riflettiamo sul fatto che, nello stato di eccezione, come scrive Schmitt, l’“autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto”. Il rapporto con la norma non si annulla, ma anzi, rimane nella forma della sua stessa esclusione, o della sua stessa sospensione: “la norma si applica all’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa. Lo stato di eccezione non è il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione.
In questo senso l’eccezione è veramente, secondo l’etimo, presa fuori (ex-capere) e non semplicemente esclusa”[8]. In questo senso, il sovrano, seguendo di nuovo Schmitt e la riflessione Agambeniana, non è colui che si limita a decidere del lecito e dell’illecito, ma colui che decide l’inclusione o la “forclusione” – termine lacaniano e dunque appartenente all’ambito psicoanalitico ma che uso volontariamente perché, a mio avviso, escludere dalla dimensione del diritto significa in qualche modo cancellare, o meglio, ostentare la rimozione di chi in quella dimensione si decide non debba far parte – nella e dalla sfera del diritto. Il sovrano decide “l’implicazione originaria del vivente nella sfera del diritto, o, nelle parole di Schmitt, la «strutturazione normale dei rapporti di vita», di cui la legge ha bisogno. […] non perché comanda e prescrive, ma in quanto deve innanzitutto creare l’ambito della propria referenza nella vita reale, normalizzarla”[9].
Se lo stato di eccezione è la messa in parentesi del diritto che essa stessa crea, la sovranità riprendendo la lettura che ne dà Mbembe (fondendola appunto su quella di Agamben e Schmitt), si definisce e si autodefinisce come un duplice processo di auto-istituzione e auto-limitazione (limiti che però scompaiono nello stato di eccezione, ovvero, la sovranità decide di fissare come limite l’abolizione – sospensione – del limite stesso). L’espressione ultima della sovranità “è la produzione di norme generali attraverso un corpo (demos) fatto di uomini e donne uguali e liberi. Questi ultimi sono considerati soggetti a pieno titolo, capaci di auto-comprensione, auto-consapevolezza e auto-coscienza.
La politica è pertanto definita secondo un duplice profilo: come un progetto di autonomia e come la realizzazione di un accordo collettivo attraverso la comunicazione e il riconoscimento”[10]. Ma l’interesse del saggio di Mbembe non cade tanto su questa lettura normativa, tardo-moderna, della politica, come linea di confine, spazio di confine tra razionalità e irrazionalità, come spazio, luogo di esercizio della ragione del soggetto nella sfera pubblica, quanto trovare quelle zone franche, quegli “stati di eccezione”, in cui la politica cessa di esercitare il diritto, o meglio, lo esercita annullandolo e mettendolo da parte. Se il Nomos sovrano è la presa della terra, la fissazione di un ordine giuridico (Ordnug) e territoriale (Ortung), va a cercare quegli spazi di “presa del fuori”, di “eccezione” (Ausnahme), quelle zone di indifferenza fra esterno e interno, di non demarcazione tra il caos e la normalità o normatività, quelle spazialità dove il diritto si pone al di fuori di se stesso, auto-imponendosi come annullamento, come sospensione. Blanchot, come nota Agmaben nel già citato Homo Sacer ha parlato di un tentativo, da parte della società, di cattura del fuori (enfermer le de hors).
È così che nasce l’eccezione, attraverso l’inclusione di ciò che sta fuori dal diritto, dall’ordinamento giuridico, dallo status politico, attraverso la creazione di ciò che sta fuori dal diritto senza cessare di appartenere ad esso. In questo senso il nazismo e i campi di concentramento rappresentano l’apoteosi di uno stato di eccezione, una spazialità in cui il diritto è completamente, tragicamente, sospeso, pur rimanendo parte della normatività, del Nomos, dell’esercizio “legale” della sovranità: “il campo [di concentramento] come spazio assoluto d’eccezione, è topologicamente diverso da un semplice spazio di reclusione. Ed è questo spazio d’eccezione, in cui il nesso tra localizzazione e ordinamento è definitivamente spezzato, che ha determinato la crisi del vecchio «nomos della terra»”[11]. Lo Stato nazista rappresenta perfettamente la realizzazione di uno Stato che esercita il diritto di uccidere, sovrapponendo “la gestione, la protezione e la riproduzione della vita al diritto sovrano di uccidere. Attraverso le estrapolazioni biologiche sul tema del nemico politico, organizzando la guerra contro i suoi avversari ed esponendo, nel medesimo tempo, i suoi stessi cittadini ad essa, lo Stato nazista ha aperto la strada a un tremendo consolidarsi del diritto di uccidere, quale è culminato nel progetto della ‘soluzione finale’. Nel far ciò, è diventato l’archetipo di una configurazione del potere che ha combinato le caratteristiche dello Stato razzista, omicida e suicida”[12]. Nello spazio dei campi, il soggetto diviene oggetto e le tecniche di morte si affinano fino a disumanizzarsi, a industrializzarsi: “le camere a gas e i forni crematori sono stati il culmine di un lungo processo di disumanizzazione e industrializzazione della morte, del quale un aspetto originale fu l’integrazione della razionalità amministrativa e produttiva del mondo occidentale moderno […]. Una volta meccanicizzata, l’esecuzione seriale fu trasformata in una procedura rapida, puramente tecnica, impersonale e silenziosa”[13].
Del resto la disumanizzazione della morte è ben evidente nelle guerre odierne, in cui si spara su bersagli anonimi, su folle senza nome, senza identificazione, si spara dall’alto, lanciando bombe “intelligenti”, che colpiscono, senza che coloro che uccidono riescano mai, o quasi mai, a vedere i volti e le ferite delle proprie vittime. La guerra sempre più tecnicizzata, diventa una guerra che si auto-assolve nell’incoscienza della morte che crea, che diventa solo una serie di numeri senza faccia né nome.
[1] A. Mbembe, Necropolitica, Ombre Corte, Verona 2016, p. 8.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 9.
[5] Ibidem, cit.
[6] G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p.12.
[7] Ivi, p. 19.
[8] Ivi, p. 22.
[9] Ivi, p. 31.
[10] A. Mbembe, op. cit., p. 10.
[11] G. Agamben, op. cit., p.24, cit.
[12] A. Mbembe, op. cit., p. 18.
[13] Ivi, pp. 19-20.
Immagine da www.commons.wikimedia.org
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.