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sondland testimony
23 Novembre 2019

La testimonianza di Sondland e le implicazioni di un impeachment di Trump

Jacopo Vannucchi Internazionale

Mercoledì 20, alla Commissione Intelligence della Camera, si è svolta la testimonianza di Gordon Sondland, il magnate alberghiero che da luglio 2018 ricopre il ruolo di ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea.
L’audizione, parte dell’inchiesta preliminare per l’impeachment del presidente Trump, era vista da tutti come il “momento della verità” per la Casa Bianca. Il giorno precedente la Commissione aveva sentito due testimoni convocati su richiesta dei deputati repubblicani – secondo la risoluzione approvata (coi voti dei soli democratici) il 31 ottobre dal plenum della Camera, la minoranza repubblicana può proporre audizioni alla Commissione.
Quei due testimoni, ossia l’ex inviato speciale in Ucraina Kurt Volker e l’ex consulente del National Security Council Tim Morrison, non solo non avevano corroborato la linea difensiva scelta dai repubblicani, ma in alcuni punti avevano apertamente confermato le accuse contro Trump (nel caso di Volker, addirittura smentendo una propria precedente deposizione a porte chiuse – ricordiamo che le sedute di questi giorni sono, invece, pubbliche e trasmesse dalle reti televisive).[1]
La posizione sempre più debole della difesa di Trump si trovava dunque appesa alla scelta che Sondland avrebbe operato. Avrebbe cercato di proteggere il Presidente, ad esempio assumendosi personalmente ogni responsabilità delle pressioni esercitate sulle autorità ucraine affinché aprissero un’indagine per corruzione nei confronti del figlio di Joe Biden? Oppure avrebbe cercato, all’opposto, di proteggere anzitutto se stesso indicando in Trump la fonte originaria di quella politica del ricatto?
Sondland, si è scoperto, ha scelto la seconda opzione, non solo affermando che gli ordini in materia provenivano personalmente dal Presidente, ma persino sottolineando che «tutti erano nel giro. Non era un segreto».

Questa deposizione è dinamite non soltanto dal punto di vista procedurale, ma, soprattutto, sotto l’aspetto politico. Sondland, oltre a essere stato un uomo di fiducia di Trump, era stato uno dei suoi finanziatori durante le presidenziali e come imprenditore non proviene né da una carriera politica né da una negli apparati statali. Contro di lui non valgono quindi le accuse di essere un “Never Trumper”[2] o un esponente del “Deep State”, il complesso di funzionari militari, diplomatici e di intelligence che, un tempo riverito dal Partito repubblicano, è oggi divenuto una sua spina nel fianco.
Non più tardi di venerdì 15 novembre, Roger Stone, uno dei più fedeli e accaniti sostenitori di Trump, è stato giudicato colpevole di aver mentito al Congresso, negando, in un’audizione del 2017 relativa all’inchiesta Mueller, di aver cercato contatti con WikiLeaks per ottenere informazioni che danneggiassero Hillary Clinton. Questa condanna aveva riportato alla luce una delle domande chiave sorte a conclusione dell’indagine: perché così tanti collaboratori del Presidente hanno mentito, al Congresso o al procuratore Mueller?

Sondland certamente non intendeva seguire le orme di Stone. Ma è estremamente istruttivo il confronto con un altro scandalo politico, non lontanissimo nel tempo, ossia l’affare Iran-Contra del 1987.
Nel corso degli anni Ottanta l’amministrazione Reagan vendette segretamente armi all’Iran – ufficialmente sotto embargo – e con il ricavato finanziò la guerriglia reazionaria contro il governo sandinista del Nicaragua – finanziamenti che erano stati resi illegali dal Congresso degli Stati Uniti. Il tenente colonnello Oliver North, responsabile di questa operazione, si assunse all’epoca qualsiasi responsabilità in materia. È oggi opinione comune che egli avesse mentito per impedire che lo scandalo travolgesse il Presidente Reagan – tanto che, anni dopo, lo stesso North dichiarò che Reagan “sicuramente sapeva”.
Questa solidarietà non è scattata oggi nei confronti di Trump. In parte, sicuramente, perché il senso di cameratismo tipico dell’esercito e di un movimento in ogni caso politico quale quello conservatore non si ritrova in bande di avventurieri unite unicamente dall’ingordigia. Ma in parte, senza dubbio, anche perché la popolarità di Trump e la sua generale posizione, politica e giudiziaria, sono più precarie di quelle di Reagan.

L’accesa polarizzazione dello scenario politico negli Stati Uniti, d’altro canto, fa sì che, sebbene il gradimento di Trump presso l’elettorato generale sia di poco superiore al 40%, tra gli elettori repubblicani esso è quasi unanime. Ciò significa, però, che l’elettorato repubblicano si è ristretto, consolidandosi attorno alla figura del Presidente. Questo fatto ha sino ad ora posto gli eletti nel partito con le spalle al muro, costringendoli spesso all’alternativa tra sostenere Trump abiurando alle proprie convinzioni oppure ritirarsi dalla politica. (Alcuni, come il senatore Graham, hanno ammesso candidamente di aver scelto la prima opzione[3]; altri, come il senatore Flake, hanno preso la seconda strada[4].) I parlamentari hanno infatti un evidente incentivo a difendere il Presidente: non perdere le primarie, evenienza che non solo li priverebbe del seggio parlamentare, ma anche li emarginerebbe da importanti circuiti di relazioni.
Ma se il Presidente diventa indifendibile vincere le primarie servirà a poco: l’emorragia di voti suburbani[5], e ad oggi addirittura di quelli esurbani[6], porterà i democratici a fare politicamente a fettine molti dei loro avversari. Un primo assaggio lo si è avuto già alle mid-term di un anno fa, quando un candidato democratico ha sconfitto, in un collegio bianco e benestante del Sud, classificato come “suburbano sparso”[7], la candidata repubblicana trumpista che a sua volta aveva battuto alle primarie il deputato in carica, conservatore ortodosso.[8]

Perché il Senato rimuova Trump dall’incarico sono necessari 67 voti, ossia, assumendo che tutti i 47 democratici votino in tal senso, almeno 20 dei 53 senatori repubblicani.
Un simile scenario ad oggi non si è concretizzato – ma non è impossibile: una rivolta anti-Trump nei gruppi parlamentari può verosimilmente assumere la forma di una slavina, imprevedibile fin quando non inizii.[9]
D’altro canto, non sembra nell’interesse dei democratici che Trump venga rimosso subito. Per quale motivo?
1. Rimosso Trump, diverrebbe Presidente il suo vice, Mike Pence, un ultraconservatore della destra religiosa[10] che, a differenza di Trump, è benvisto dalla dirigenza del partito repubblicano e ha certamente un savoir-faire molto più equilibrato di quello dell’oligarca. L’anno che ci separa dalle elezioni presidenziali probabilmente non sarebbe sufficiente a Pence per rifarsi una verginità. Non ci riuscì Gerald Ford dopo le dimissioni di Nixon – e Ford di anni ne ebbe due – e, come nel caso Ford, non sarebbe affatto improbabile che il Presidente Pence emanasse nei confronti di Trump una grazia giudiziaria onnicomprensiva. Ma certo un recupero nondimeno ci sarebbe, perché Pence, pur continuando a incarnare come Trump la «resistenza al cambiamento culturale»[11], potrebbe recuperare tra i repubblicani “ortodossi”, gli orfani della presidenza Bush, come ad esempio il falco neoconservatore Bill Kristol.
2. Se il Partito repubblicano decidesse di scaricare Trump, si salverebbero tutti coloro che lo hanno sostenuto: i “Trump enablers”[12], il cui capo è naturalmente l’anziano leader di maggioranza al Senato Mitch McConnell (che a novembre 2020 correrà in Kentucky per un altro mandato, il settimo dal 1984). È grazie al cinico sostegno di questa truppa che Trump ha potuto sconvolgere le istituzioni e la vita politica degli Stati Uniti, spingendosi fino a dire che nel Ku-Klux-Klan vi sono «persone molto a posto»[13] o a chiedere pubblicamente, dal giardino della Casa Bianca, a potenze straniere di aprire indagini su suoi oppositori politici.[14] Tutto gli è stato consentito purché portasse a termine due operazioni che stavano assai a cuore alla destra americana: la diminuzione delle tasse ai ricchi (con la riforma fiscale del 2017) e la nomina di giudici di destra, talvolta di destra estrema[15], nei tribunali federali. Anche questi uomini politici devono dunque arrivare al 2020 ancora legati a Donald Trump, per poter essere affondati con lui o, perlomeno, marchiati nella memoria come i suoi “ultimi giapponesi”.
3. In caso di rimozione di Trump, all’interno delle primarie democratiche il focus degli elettori necessariamente prenderebbe meno in considerazione, nell’esame dei candidati, l’abilità di vincere le elezioni e più in considerazione le proposte programmatiche. Da mesi e mesi i sondaggi rilevano come una quota maggioritaria (ad oggi circa i due terzi[16]) degli elettori democratici ritenga le compatibilità programmatiche un elemento di secondo piano rispetto alla capacità di un candidato di battere Trump il giorno delle elezioni. Ma un’evoluzione in senso opposto, per la percezione di una minore posta in gioco in caso di sconfitta, porterebbe ad aumentare le probabilità che i democratici candidino un esponente della sinistra interna (la senatrice Warren, o il senatore Sanders), dotandosi del candidato più a sinistra dopo McGovern nel 1972, se non addirittura del più a sinistra nella loro storia. Una simile operazione li esporrebbe a rischio di sconfitta – i bianchi istruiti e benestanti dei sobborghi, repubblicani fino al 2016, chi sceglierebbero tra un partito repubblicano de-trumpizzato e un partito democratico sinistra radicale?

Provvidenzialmente, però, Gordon Sondland ha implicato nell’affare ucraino non soltanto Trump, ma anche Pence e il Segretario di Stato Mike Pompeo. Se le due massime cariche federali risultassero entrambe gravemente coinvolte, il Partito Repubblicano avrebbe tre scelte:
1. Rimuoverli entrambi, consegnando la Casa Bianca alla seconda persona in linea di successione, ossia la Speaker della Camera Nancy Pelosi. Da un lato ciò consentirebbe ai repubblicani una campagna elettorale fondata sulla necessità che il popolo si “riprenda” la Presidenza espropriata… se non fosse che proprio il voto di (una parte dei) repubblicani avrebbe rimosso Trump e Pence. E un partito così aspramente diviso non sarebbe un’efficace macchina da guerra.
2. Difenderli entrambi, arrivando però alle elezioni con un’amministrazione e due candidati più che piagati dallo scandalo.
3. Rimuovere il solo Trump, ma lasciando alla Presidenza un Pence comunque bruciato, se non rovinato, dalla vicenda dell’impeachment.
D’altronde, poiché il Senato è costituzionalmente la “corte” che giudica sull’impeachment, un voto in cui la maggioranza ritenga Trump non colpevole non sarebbe un ottimo risultato per i democratici. Il Presidente potrebbe dire che, nonostante tutto il fango e la caccia alle streghe subìta per mano dei suoi oppositori, il Senato lo ha assolto.

L’ideale sembrerebbe dunque un Trump non rimosso, lasciato sulla graticola fino a novembre 2020, ma per la cui colpevolezza si pronunzia un numero di senatori superiore a 50 – e, magari, a 60, che è una cifra simbolica perché è la soglia necessaria per “ghigliottinare” il dibattito e impedire l’ostruzionismo. Oltre ad essere pericolosamente vicino ai fatidici 67, un pronunciamento contro Trump da parte di 60 senatori renderebbe plasticamente l’idea dell’impossibilità per il Presidente di controllare anche solo uno dei rami del Congresso.


  1. https://edition.cnn.com/2019/11/19/politics/kurt-volker-tim-morrison-public-hearing/index.html ↑

  2. “Never Trump” fu nel 2016 lo slogan di alcuni esponenti repubblicani che rifiutavano in ogni caso di sostenere Trump, persino come candidato ufficiale del partito. Il più noto rimasto tuttora in posizioni preminenti è il senatore conservatore del Nebraska Ben Sasse. ↑

  3. https://www.nytimes.com/2019/02/25/magazine/lindsey-graham-what-happened-trump.html ↑

  4. https://www.politico.com/story/2017/10/24/flake-retiring-after-2018-244114 ↑

  5. http://www.msnbc.com/rachel-maddow-show/election-results-louisiana-make-matters-even-worse-trump ↑

  6. https://www.nytimes.com/2019/11/09/us/virginia-elections-democrats-republicans.html ↑

  7. https://www.citylab.com/equity/2018/10/midterm-election-data-suburban-voters/572137/ ↑

  8. https://www.washingtonpost.com/election-results/south-carolina-1st-congressional-district/ ↑

  9. https://fivethirtyeight.com/features/if-republicans-ever-turn-on-trump-itll-happen-all-at-once/ ↑

  10. https://fivethirtyeight.com/features/mike-pence-would-be-a-really-conservative-and-mostly-unknown-vp-pick/ ↑

  11. https://blogs.lse.ac.uk/brexit/2016/11/11/resistance-to-cultural-change-drove-trumps-support-just-as-with-brexit/ ↑

  12. https://fivethirtyeight.com/features/the-five-wings-of-the-republican-party/ ↑

  13. https://edition.cnn.com/2017/08/15/politics/donald-trump-david-duke-charlottesville/index.html ↑

  14. https://apnews.com/c4fc388b22f549e0a67925cab8cd7e93 ↑

  15. http://www.msnbc.com/rachel-maddow-show/gop-ignores-scandals-advances-controversial-judicial-nominee ↑

  16. https://projects.fivethirtyeight.com/democratic-debate-november-poll/ ↑

Immagine Victoria Pickering (dettaglio) da flickr.com

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Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/2658-jacopo-vannucchi.html
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