Antefatto: Trump e i democratici, 2016-2019
Trump è stato eletto Presidente con un tasso di (im)popolarità storico: 38% il giorno delle elezioni.[1] Il blog FiveThirtyEight addirittura ebbe a scrivere che, vista l’impopolarità della Clinton, il fatto che Trump fosse ancora più indigesto era uno dei punti forti per l’ex first lady.[2]
Come noto, da allora la popolarità di Trump si è stabilizzata per anni sul 42% circa.[3]
Nella prima metà del mandato, l’opinione pubblica Usa si è decisamente schierata contro il Presidente: non solo rispondendo ai sondaggi, ma anche votando. Nei cicli elettorali e nelle elezioni suppletive degli anni 2017-18 i democratici hanno costantemente superato le aspettative, cogliendo risultati talvolta storici – come l’elezione di un senatore in Alabama, cioè nel cuore della base trumpista.[4] Le mid-term del 2018 hanno costituito in effetti la più grande avanzata democratica dopo quelle del 1974 (avvenute a tre mesi dalle scioccanti dimissioni di Nixon), anche se un dato contribuì ad addolcire la sconfitta dei repubblicani: Trump, grazie anche alla concomitanza con la battaglia (da lui vinta) per la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, riuscì a mobilitare tutto il proprio elettorato, con la conseguenza di rafforzarsi la maggioranza al Senato – dove le zone rurali e periferiche, ossia la sua base di consenso, sono sovrarappresentate.
Da allora, la neo-acquisita maggioranza alla Camera ha portato due nuovi problemi per i democratici. In primo luogo, in condizioni di “governo diviso” (Presidenza e Senato repubblicani, Camera democratica) una parte dell’opinione pubblica non ritiene che siano necessari ulteriori contrappesi istituzionali – e quindi viene meno uno dei motivi che avevano sospinto l’Asinello nel 2017 e ’18. In secondo luogo, il gruppo democratico alla Camera ha esperito al proprio interno una serie di divisioni. Quella più nota, senza dubbio, l’attivismo dell’area ultra-progressista, ben rappresentata dal “Plotone” (The Squad) guidato da Ocasio-Cortez, che ha spesso morso con insofferenza il freno di Nancy Pelosi: sia sull’impeachment sia sulle proposte politiche (in primis il Green New Deal). Ma a questa devono sommarsi anche le resistenze dei deputati neo-eletti in partibus Trumpianorum, che non intendono farsi schiacciare a sinistra, e, soprattutto, il sobbollire di una “Nuova Guardia”[5] che richiede l’avvicendamento generazionale in un partito ormai controllato da ottuagenari.[6]
Nascita e svolgimento dell’impeachment
La Speaker ha più volte resistito alla richiesta del gruppo di porre sotto impeachment il Presidente, anche se il Rapporto Mueller di fatto sembrava suggerire la necessità di un’azione del Congresso in tal senso.[7] L’intento era di non esacerbare le divisioni in atto nella società statunitense e di non esporre i democratici al rischio di pericolosi rovesci in termini di popolarità (memore del processo a Clinton, che nel 1998 si rivelò per i repubblicani un clamoroso boomerang).
L’emergere dello scandalo Ucraina, in cui il Presidente ha condizionato il sostegno militare a Kiev all’apertura locale di un’inchiesta nei confronti di Hunter Biden (figlio dell’ex Vicepresidente), ha costretto la Pelosi ad avviare le procedure. Per quanto rischiosa fosse la mossa, sembrò che sul momento risolvesse alcune questioni: anzitutto, la contrarietà all’impeachment non aveva più la maggioranza nel gruppo democratico[8]. Secondariamente, una maggioranza – e, a volte, maggioranza assoluta – dei cittadini si dichiarava favorevole alla rimozione o comunque al processo di Trump.[9] In terzo luogo, le azioni di Trump erano considerate con evidente disagio anche dai parlamentari repubblicani, il che lasciava aperto uno spiraglio per la destituzione del Presidente in caso di evidenze particolarmente compromettenti.
Lo svolgersi della procedura, tuttavia, si è rivelato più accidentato di queste premesse. Alla Camera non solo nessun repubblicano si è pronunciato favorevolmente all’apertura di un’inchiesta (l’indipendente Justin Amash ha votato sì, ma era già uscito dal GOP da mesi), ma tre democratici hanno votato contro[10] ed uno di loro è addirittura passato al partito del Presidente.[11] Al Senato, la ricerca per i democratici dei venti (!) voti mancanti per rimuovere Trump era persa in partenza, ma per le votazioni procedurali che richiedono una maggioranza semplice questo fabbisogno era ridotto a quattro, e questi quattro avevano anche un nome e un cognome: la senatrice centrista Susan Collins; la collega Lisa Murkowski, anch’essa moderata e già da tempo non troppo allineata al partito[12]; l’ex candidato presidenziale Mitt Romney, da sempre antitrumpiano; l’anziano Lamar Alexander che, nel suo ultimo anno di mandato, avrebbe potuto mostrare un’indipendenza di giudizio rispetto agli ordini di scuderia.
Durante le fasi del processo al Senato, il New York Times ha pubblicato estratti in anteprima di un venturo libro di John Bolton, il falco neocon che, già ambasciatore all’Onu durante l’amministrazione di George W. Bush, ha di recente caldeggiato una guerra all’Iran e nel settembre 2019 è stato, da Trump, rimosso dalla posizione di Consigliere per la sicurezza nazionale. Bolton sostiene che Trump avesse chiaramente vincolato gli aiuti militari all’apertura di indagini nei confronti di Biden[13]; poiché sulla sua fede conservatrice non possono sussistere dubbi, l’accusa era particolarmente pesante per il Presidente.
I democratici hanno chiesto che il Senato lo convocasse a testimoniare; dal canto loro, i repubblicani hanno ribattuto proponendo di chiamare a deporre Hunter Biden. Un sondaggio effettuato in quei giorni ha mostrato che la convocazione di testimoni era appoggiata dal 75% degli americani, tra cui il 49% dei repubblicani.[14] Se i quattro ribelli si fossero sommati ai quarantasette democratici, il processo si sarebbe prolungato – anche se resta da vedere se gli esiti sarebbero stati più logoranti per Trump o per Joe Biden.
In ogni caso, con il diniego di Alexander è crollata qualsiasi ipotesi di maggioranza alternativa. A ciò si è aggiunta un’ulteriore beffa. Secondo la Costituzione, in caso di parità di voto al Senato il Vicepresidente degli Stati Uniti (che presiede la Camera alta) ha il potere di votare per produrre una maggioranza. Nei processi di impeachment, però, il Senato è presieduto dal Giudice Capo (ossia, il presidente della Corte Suprema, attualmente John Roberts). Nulla si dice costituzionalmente o legalmente del suo eventuale potere di voto, ma l’ala sinistra dei democratici ha rumoreggiato chiedendo che Roberts si schierasse. La conseguenza è stata che, per evitare di trascinare un’altra istituzione nella guerriglia politica, anche la Murkowski ha votato no, procurando così a Trump non solo una non-minoranza di 50 voti, ma una maggioranza di 51.[15] Di più: il capogruppo repubblicano McConnell è anche riuscito a regalare una buona figura alla senatrice Collins, che ha potuto votare sì in dissenso dal gruppo senza però alcuna conseguenza pratica. Per la persona responsabile della conferma del giudice Kavanaugh si tratta di una vernice di centrismo e indipendenza che le farà comodo per la rielezione di novembre prossimo.
La versione di Romney
Il verdetto del Senato era scontato: per portare Trump alla destituzione sarebbe stata necessaria una slavina[16] e, anzi, la polarizzazione elettorale in continua crescita ha portato a schiacciarsi sul partito anche i senatori che una volta sarebbero stati più indipendenti, ossia i repubbilcani eletti in stati in bilico o filo-democratici (esempio massimo: Cory Gardner del Colorado). Per loro è molto più semplice essere rieletti massimizzando l’affluenza conservatrice che provando a pescare voti nel bacino moderato di centro: tanto più che un voto contro Trump li metterebbe pesantemente a rischio già in fase di primarie di partito.
Tuttavia, se la condanna restava un miraggio, riguardo la conta finale vi era maggiore incertezza. Senatori di entrambi i gruppi erano considerati indecisi[17]: i democratici avrebbero perso pezzi, come alla Camera, oppure sarebbe avvenuto il contrario – magari portando gli innocentisti in minoranza?
Il Presidente era stato accusato di abuso di potere (per il ricatto all’Ucraina su Biden) e di ostruzione del Congresso (per il divieto di testimonianza imposto ai funzionari della Casa Bianca convocati dalla Commissione Giustizia della Camera). Su quest’ultimo punto l’assoluzione ha ricalcato fedelmente le appartenenze politiche: 53 repubblicani per il no, 47 democratici per il sì.
Sul primo articolo, invece, c’è stato un movimento minimo ma significativo: Mitt Romney, senatore per lo Utah, ha votato per la condanna. L’emozionato discorso con cui ha annunciato il proprio voto è un piccolo gioiello retorico per le staffilate riservate ai suoi compagni di partito, alcuni dei quali hanno spudoratamente ammesso di votare contro anche se ritengono che le azioni di Trump siano state inappropriate.[18] Ad esempio, Romney ha più volte addotto a motivo il suo sentimento religioso, che gli impone di seguire solo la propria coscienza avendo «giurato, di fronte a Dio, di amministrare una giustizia imparziale»[19] – un’evidente manifestazione di disgusto per l’ipocrisia della destra religiosa – e per ben due volte, all’inizio e al termine del discorso, ha ribadito di «confidare» che tutti abbiano deliberato secondo coscienza e di «sperare» che la buona fede di ciascuno sia rispettata. La conclusione è stata molto retorica: in una troppo evidente diminutio di se stesso, ha affermato di essere motivato soltanto dalla propria coscienza di fronte a Dio e alla propria famiglia, sebbene per le generazioni future il suo nome sarà solo «uno dei tanti, né più né meno» nei verbali dell’impeachment di Trump – facendo quindi capire di mirare, in realtà, a cementare la propria immagine storica.
Ha anche riconosciuto che «in alcuni circoli sarò veementemente attaccato. Sono certo che sentirò insulti dal Presidente e dai suoi sostenitori» e in effetti Trump non ha perso tempo, twittando che il senatore, troppo debole per sconfiggere i democratici nel 2012, ha scelto di passare con loro. Una sorte che probabilmente sarebbe toccata anche al defunto John McCain, anch’egli candidato sconfitto (2008) e la cui presenza oggi in Senato avrebbe potuto catalizzare qualche dissidente in più. La differenza è che oggi tutto il partito nazionale si è unito alla aperta condanna di Romney.[20]
Buone nuove per Trump
L’assoluzione non è l’unica buona notizia per Trump.
Martedì scorso ha toccato il 49% di popolarità nel tradizionale sondaggio Gallup, dato che per la sua presidenza è un record storico.[21] Naturalmente un sondaggio non fa primavera, ma può indicare una nuova corrente in arrivo.
L’economia Usa continua a ingranare e il raffreddamento che l’epidemia di coronavirus ha imposto agli scambi commerciali e azionari può fornire per giunta un ulteriore paracadute. La sperequatissima distribuzione della ricchezza prodotta negli ultimi anni ha portato il ciclo economico sull’orlo di un’altra bolla e di un’altra recessione. Le conseguenze di essa, stavolta, potrebbero essere devastanti non solo sul piano meramente economico ma anche su quello sociale e politico. Ma l’epidemia “cinese” potrebbe consentire a Trump di intrecciare la recessione con il tema della xenofobia e del razzismo, dove notoriamente egli è molto forte. Non necessariamente, quindi, rovesci economici si riveleranno svantaggiosi per l’inquilino della Casa Bianca.
Infine, il caos democratico in Iowa. La pubblicazione dei risultati del primo caucus è slittata di giorni a causa di errori nel software di trasmissione dati, che non era stato collaudato a dovere. Deridendo la disorganizzazione dei democratici, il Presidente ha affermato che si sono dimostrati inadatti a governare.
Confusione tra i democratici
Proprio la situazione del Partito Democratico merita infine una ricognizione.
La disattenzione dei democratici per la trasparenza e l’affidabilità del voto popolare in Iowa è in singolare contrasto con la loro netta attenzione su un altro punto. Nella scorsa settimana il Comitato Nazionale ha cambiato le regole dei dibattiti in modo da consentire la partecipazione di Michael Bloomberg, l’ex sindaco repubblicano di New York con un patrimonio stimato di 53 miliardi di dollari (diciassette volte quello di Trump).[22] In precedenza erano previste soglie minime di consenso (individuato tramite sondaggi qualificati) e di finanziamenti individuali: quest’ultimo requisito avrebbe avvantaggiato i candidati con un sostegno attivo tra i militanti, anche se debole nell’elettorato generale, e svantaggiato le candidature che si appoggiano su finanziamenti milionari o che sono autofinanziate. Tra queste ultime rientra ovviamente quella di Bloomberg, e proprio quel requisito è stato cassato per consentirgli di partecipare. Di fatto Bloomberg – che in passato ha finanziato generosamente il partito – si è comprato il cambio di regole, esattamente come fatto con gli endorsement di sindaci delle metropoli e di deputati delle aree urbane disagiate, zone cioè che ricevono ingenti sussidi dalla sua fondazione.[23]
Riguardo poi il risultato delle primarie in Iowa, la sorpresa maggiore è il magro risultato di Biden, finito soltanto quarto. La principale contraddizione di immagine è che, da un lato, egli si presenta come: a) vice e quindi erede del più recente Presidente democratico, nonché la figura oggi più popolare tra i democratici (Obama); b) candidato unitario con l’obiettivo sovra-politico di tutelare la Costituzione dallo scempio trumpista; c) il candidato che nei sondaggi batte Trump con il maggiore distacco. Dall’altro lato, però, ha iniziato con una sonora sconfitta e già prima non raccoglieva affatto l’entusiasmo dell’establishment del partito, in cui fino all’ultimo si sono rincorse voci di un “salvatore della patria” in extremis (lo stesso ripensamento di Bloomberg, sceso in campo solo a novembre 2019, è pesantemente significativo).
Il problema dell’establishment, però, è che non ha un vero cavallo su cui puntare. I papabili sono candidati già sconfitti (Rodham Clinton, Kerry, Gore), o del tutto privi del necessario carisma (l’ex procuratore generale obamiano Eric Holder, o l’ex governatore del Massachusetts Deval Patrick, che si è candidato ma non è rilevato dai radar). Per cui, in mancanza di meglio, pare cercare di aggrapparsi a Bloomberg, che contro Trump può schierare la potenza di fuoco del proprio capitale.
Biden annunciò la propria candidatura in aprile partendo dal contrapporre i tumulti razzisti di Charlottesville (2017) all’autore della Dichiarazione d’Indipendenza, Thomas Jefferson, che in quella città risiedeva, per dichiarare poi che, se rieletto, Trump «trasformerà per sempre e dalle fondamenta le caratteristiche di questa nazione». Il punto debole di questa candidatura è che considera apertamente Trump «una momentanea aberrazione della storia»[24] e non il prodotto conseguente di determinate condizioni storiche (sociali, economiche, istituzionali).
Un altro gruppo di democratici ritiene invece che si debba sconfiggere non Trump, ma il sistema che lo ha prodotto, e che a questo fine serva un radicale attacco al grande capitale (Sanders, Warren). Il problema di queste candidature, però, è che esasperano le divisioni politiche invece di lenirle: per la sinistra democratica “compromesso” è una parola sgradevole all’interno del gruppo parlamentare, ancor prima che con l’altro partito. Del resto, la gravità della tensione politica è stata resa evidente dal fatto che la Speaker in persona ha platealmente stracciato il discorso di Trump sullo stato dell’Unione, assumendo una posizione ancor più combattiva delle deputate radicali che avevano scelto di non recarsi ad ascoltarlo.[25]
È presto per dire quale candidato emergerà dalle primarie – o, senza maggioranza alle primarie, dalla convention. Ma nel discorso di Romney era contenuto un forte assist per la candidatura “costituzionale” di Biden: «Sostengo una gran parte di ciò che il Presidente ha fatto. Ho votato con lui l’80% delle volte. Ma [non posso] ignorare le prove addotte, e trascurare quanto credo che mi domandino il mio giuramento e la Costituzione […]. Credo che la nostra Costituzione sia stata ispirata dalla Provvidenza. Sono convinto che la libertà stessa dipenda dalla forza e dalla vitalità del nostro carattere nazionale».
A fine 2018 una consigliera di Biden, con un lungo passato negli staff dei capi nazionali repubblicani (George W. e Jeb Bush, McCain, Giuliani, Cheney…), propose esplicitamente un ticket unitario Biden-Romney per la Presidenza.[26] L’ultimo caso fu quello tra Abraham Lincoln (repubblicano) e Andrew Johnson (democratico) nel 1864, in piena guerra di secessione, ma la suggestione non è così peregrina neppure per l’oggi: già nel 2004 si parlò di un ticket Kerry-McCain[27], e di uno Obama-Hagel nel 2008[28].
Il futuro davanti
Gli uomini di questo tempo hanno un vantaggio che gli uomini degli anni Trenta non avevano: possono contare su un esempio storico (gli anni ’30, appunto). All’epoca l’Urss difese, dal 1935 e fino alla metà circa del 1939, la linea dei fronti popolari, cioè di accordi antifascisti con altri partiti popolari e con le forze liberal-democratiche della borghesia. Questa linea si infranse sul testardo rifiuto di alcuni settori borghesi: i repubblicani centristi in Francia, i radicali in Spagna, il governo britannico in politica internazionale. L’Urss scelse allora di trattare direttamente con Hitler, lasciando la borghesia perbenista al destino che si era scelta. I fronti furono poi ricostituiti dal 1941, anzi addirittura allargati a settori conservatori, nazionalisti e monarchici (de Gaulle, Badoglio, ecc.).
Oggi è necessario ancora fare di tutto per impedire che il fascismo scateni un’altra ecatombe. Ma anche oggi permangono gli ostinati tentativi della borghesia “liberale” di «nutrire il coccodrillo, sperando di essere divorati per ultimi» (nelle parole di Churchill).[29] La convergenza tra fascisti, liberali e democristiani nel Consiglio regionale della Turingia – sebbene subito sconfessata aspramente dai vertici nazionali di Fdp e Cdu – è solo l’ultima manifestazione di questa cieca tendenza.[30] Le elezioni USA sono forse l’ultima chiamata per quei settori. Se anche lì dovessero ritenere l’estrema destra un’interessante soluzione per combattere i lavoratori, allora la sinistra dovrebbe prendere atto che le alleanze antifasciste sono impercorribili per manifesto disinteresse dell’altro contraente, e prepararsi a una lotta solitaria – e probabilmente breve, come breve fu l’isolamento sovietico nel 1939-41.
Poi, per citare ancora Churchill, verrà «la fine dell’inizio».
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https://fivethirtyeight.com/features/trump-is-more-unpopular-than-clinton-is-and-that-matters/ ↑
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https://projects.fivethirtyeight.com/trump-approval-ratings/ ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/special-elections-so-far-point-to-a-democratic-wave-in-2018/ ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/the-six-wings-of-the-democratic-party/ ↑
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La Speaker della Camera è nata nel 1940, il Leader alla Camera nel 1939, il Capogruppo alla Camera nel 1940, il Leader al Senato nel 1950, il Capogruppo al Senato nel 1944 e, insieme, combinano 175 anni di anzianità parlamentare. Anche alcuni tra i principali candidati alle primarie hanno superato i 70: Sanders (1941), Bloomberg (1942), Biden (1942), Warren (1949). ↑
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https://www.ilbecco.it/trump-e-federazione-russa-il-rapporto-mueller%EF%BB%BF/ ↑
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https://www.politico.com/story/2019/08/01/majority-house-democrats-support-impeachment-1440799 ↑
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https://www.nytimes.com/2019/12/18/us/politics/how-democrats-voted-on-impeaching-trump.html ↑
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https://www.politico.com/news/2019/12/19/trump-meet-party-switching-van-drew-087976 ↑
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Nel 2018 ha votato contro la nomina di Kavanaugh, e già nel 2010, dopo aver perso le primarie contro un esponente del Tea Party, era stata rieletta senatrice come “write-in” (gli elettori scrissero a mano ↑
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https://www.nytimes.com/2020/01/26/us/politics/trump-bolton-book-ukraine.html ↑
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https://www.cnn.com/2020/01/28/politics/quinnipiac-impeachment-poll-witnesses/index.html ↑
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https://www.cnn.com/2020/01/31/politics/elizabeth-warren-lisa-murkowski-john-roberts/index.html ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/which-senators-are-likely-to-vote-for-trumps-removal/ ↑
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https://www.politico.com/newsletters/huddle/2020/02/04/will-anyone-cross-party-lines-in-the-final-impeachment-vote-488237 ↑
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La non invidiabile palma va però alla Collins, che ha anche aggiunto che il Presidente ha imparato da questa vicenda e in futuro si comporterà meglio: https://edition.cnn.com/2020/02/05/politics/susan-collins-trump-impeachment/index.html ↑
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https://www.romney.senate.gov/romney-delivers-remarks-impeachment-vote ↑
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https://edition.cnn.com/2020/02/06/politics/donald-trump-impeachment-senate-acquitted/index.html ↑
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https://edition.cnn.com/2020/02/04/politics/donald-trump-gallup-poll/index.html ↑
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https://www.forbes.com/sites/michelatindera/2019/11/22/heres-why-michael-bloomberg-is-17-times-richer-than-donald-trump/ ↑
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https://www.nytimes.com/2019/12/14/us/politics/bloomberg-mayors-2020.html ↑
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https://edition.cnn.com/2020/02/04/politics/alexandria-ocasio-cortez-ayanna-pressley-skip-sotu/index.html ↑
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https://www.politico.com/magazine/story/2018/12/11/biden-2020-running-mate-romney-222861 ↑
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https://archivio.ilbecco.it/politica/sinistre/item/4662-le-due-lezioni-alle-sinistre-dopo-le-elezioni-in-andalusia.html ↑
Immagine White House da flickr.com

Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.