L’ondata di proteste scatenatasi negli Stati Uniti d’America a seguito dell’omicidio di George Floyd, e a soli cinque mesi dalle elezioni presidenziali, è stata immediatamente riconosciuta come un evento fondamentale non solo dell’attualità, ma, in prospettiva, della storia stessa.
La posta in gioco alle presidenziali di novembre, infatti, è ancora più alta rispetto al 2016. Non soltanto perché quattro anni fa serpeggiava lo scetticismo riguardo le reali possibilità di vittoria da parte di Trump, ma perché il voto del 2020 riguarda il ruolo storico del trumpismo. Non si tratta, come vorrebbe una certa retorica liberale, di difendere la purezza costituzionale degli USA contro l’incidentale aberrazione trumpista: lo sviluppo storico ha determinazioni ben radicate nella realtà e il concetto stesso di parentesi tradisce l’incapacità di spiegarsi l’inceppamento in una visione che si vorrebbe teleologica. Siamo semmai di fronte a una battaglia che può decidere il corso degli Stati Uniti per una o due generazioni, se cioè confermare il trumpismo come la legittima incarnazione del volto americano oppure respingerlo assieme al vecchio fascismo nella fogna dei crimini – o nella «cesta dei deprecabili», come disse più cortesemente la Clinton a settembre 2016.[1]
Anche per queste ragioni alcuni commentatori hanno proposto un paragone con i tumulti del 1968, anch’essi caduti in una campagna presidenziale in cui diverse forti sollecitazioni (le lotte per i diritti civili, la reazione razzista nel Sud privato della segregazione, la guerra del Vietnam) si sommarono nello spingere Nixon alla Casa Bianca e nel produrre la candidatura populista-razzista di George Wallace. Un paragone, però, in peggio: «Il Covid-19 ha ucciso circa il doppio dei 58.000 americani caduti in quasi un decennio di guerra in Vietnam. […] Abbiamo un Presidente che, a differenza di Lyndon Johnson o Richard Nixon, sembra non interessarsi alla governance. […] Congeda i suoi stessi esperti e chiede consiglio a figure dei media di estrema destra. […] Twitta messaggi che istigano alla violenza», il tutto in uno scenario politico assai più polarizzato e con un’economia in ginocchio.[2]
Si possono distinguere oggi almeno tre elementi di una novità dirompente rispetto al relativamente recente 1968 o, talvolta, rispetto a tutta la storia USA che meritano di essere messi in luce.
Il ruolo dei bianchi
Leggere la divisione razziale negli Stati Uniti come semplice contrasto tra popolazione bianca e popolazione nera non permette, in questo momento, di cogliere con esattezza i rapporti tra le forze in campo. Non soltanto per l’emergere negli ultimi decenni di una consistente minoranza ispanica, ma, soprattutto, perché le posizioni dei bianchi sono sempre più diversificate al proprio interno. Le opinioni dei bianchi democratici, infatti, sono venute sempre più ad allinearsi a quelle della popolazione nera da quando il movimento Black Lives Matter è nato, nel 2013, in risposta all’assoluzione del vigilante George Zimmerman per l’omicidio del diciassettenne nero Trayvon Martin (febbraio 2012).
La sempre maggiore consonanza sui temi razziali tra il sentire degli afroamericani, degli ispanici e dei bianchi democratici ha fatto sì che la maggiore divisione negli Stati Uniti oggi sia non tra bianchi e neri, bensì tra bianchi democratici e bianchi repubblicani.[3] Così si spiega un inedito di queste proteste, ossia la forte partecipazione in esse di popolazione bianca.
E poiché gli afroamericani votano democratico al 90% e gli ispanici al 70%, di fatto la questione razziale è un tema più polarizzato che mai tra i due partiti politici.
Ma neppure i bianchi democratici costituiscono un blocco unitario sotto questo aspetto. Al contrario, la loro evoluzione negli ultimi anni è dovuta pressoché esclusivamente ad un loro particolare segmento: i giovani laureati. Si può dunque osservare che se una contrapposizione immediata bianchi/neri resta almeno in parte valida per le generazioni precedenti, la tendenza delle fasce giovanili è nella direzione di un orientamento antirazzista comune.
Il ruolo della sinistra
Tra gli aspetti più rilevanti di queste proteste è il grado di solidarietà che esse stanno ricevendo dal resto della società.
La prima categoria a muoversi sono stati gli autisti del trasporto pubblico di Minneapolis, che, precettati dalla polizia per trasportare i manifestanti arrestati, si sono rifiutati di eseguire l’ordine. I sindacati hanno immediatamente difeso questa scelta, che si è poi estesa anche ad altre città. Un conducente di Minneapolis ha scritto su Facebook un post diventato virale, i cui contenuti – «come iscritto al sindacato mi rifiuto di trasportare in galera la gioventù della sinistra di classe» – sono forse eccezionalmente politicizzati, ma riflettono nondimeno un orientamento diffuso, anche per il rischio di violenze a cui un simile uso del trasporto pubblico esporrebbe i conducenti.[4]
L’ultima volta che un’agitazione sindacale ha usato toni di questo genere è stato prima della Seconda Guerra Mondiale, in particolare negli scioperi dell’industria automobilistica del 1934-37. Dopo di allora la classe operaia bianca non è stata, storicamente, il settore sociale con maggiori simpatie per la popolazione di colore. Al contrario, la sua ala conservatrice ha costituito uno dei pilastri della coalizione trumpista. Come è stato correttamente notato, la formula «legge e ordine» con cui Trump si è presentato nel 2016, in una generale tendenza di diminuzione dei crimini, era in realtà un’allusione alla «nostalgia per un’America di metà Novecento, con una robusta industria interna e un ordine sociale chiaramente definito, anche se razzista».[5] Difatti, un forte predittore dell’orientamento di voto alle presidenziali del 2016 fu l’opinione se la nazione fosse cambiata in meglio o in peggio dagli anni Cinquanta in poi.[6]
Dunque, a cosa è dovuto questo recente congiungersi di bianchi e neri nella protesta?
L’idea che i cittadini statunitensi scelgano il partito di riferimento in base al programma che quel partito esplicita in materia razziale è probabilmente valida solo parzialmente, ossia solo per le minoranze razziali e per i settori più arretrati della popolazione bianca.
Per spiegare il coinvolgimento dei bianchi, e in specie giovani laureati, è utile invece osservare la situazione materiale in cui questo segmento di popolazione vive. Come ho già avuto occasione di notare[7], questa fascia vive una divaricazione insostenibile tra le proprie aspettative di vita, sulla base degli studi compiuti e del costo che essi hanno avuto, e ciò che il mercato del lavoro effettivamente le offre. Solo lo stipendio dei genitori e l’indebitamento li tengono, a fatica, a galla. Per questo i bianchi giovani e istruiti sentono l’incentivo a contestare radicalmente il sistema.
Il ruolo dell’esercito
Il 3 giugno il generale Mattis, che ha guidato il Pentagono nei primi due anni della presidenza Trump, ha rilasciato una dichiarazione pubblica estremamente interessante ma, anche, preoccupante.[8]
L’ipotesi che il Presidente possa ordinare all’esercito di assumere la tutela dell’ordine pubblico configurerebbe secondo Mattis non solo una violazione della Costituzione ma, in quanto tale, un tradimento del giuramento di lealtà delle forze armate. La logica conseguenza secondo l’ex Segretario della Difesa è che l’esercito debba rifiutarsi di obbedire ad ordini incostituzionali provenienti dal comandante in capo. Vale la pena citare i passaggi più eloquenti:
«Le istruzioni fornite dai dipartimenti militari alle nostre truppe prima dell’invasione della Normandia ricordavano ai soldati che “Lo slogan nazista per distruggerci… era ‘Dividi e Conquista’. La nostra risposta americana è ‘Nell’Unione c’è forza’”. Dobbiamo invocare quella unità per soverchiare questa crisi – fiduciosi che noi siamo migliori della nostra politica. Donald Trump è il primo presidente nella mia vita che non cerca di unire il popolo americano – non finge neanche di provarci. Invece cerca di dividerci. Siamo testimoni delle conseguenze di tre anni di un tale sforzo deliberato. Siamo testimoni delle conseguenze di tre anni senza una leadership matura. Possiamo unirci senza di lui, attingendo alle forze intrinseche della nostra società civile».
La traduzione di queste frasi appare chiara: al presidente Trump non bisogna obbedire, perché le sue politiche sono le medesime del nazismo. Le forze sane della società devono reagire e costituire un contropotere – da notare, anche, che nella dichiarazione Mattis dice esplicitamente che «il mantenimento dell’ordine pubblico spetta al potere civile statale e locale», ma non fa alcuna menzione del potere federale.
Il 1° giugno Trump è uscito dalla Casa Bianca per farsi fotografare davanti a una chiesa con una Bibbia in mano. Per arrivare sul luogo si è fatto spianare la strada dalla polizia, che ha provveduto a disperdere i dimostranti – civili disarmati e pacifici – con l’uso di proiettili di gomma, gas lacrimogeno e granate stordenti. In un commento sull’evento è stato detto che tra i valori democratici così sfregiati da Trump vi è anche l’indipendenza di polizia ed esercito dai partiti politici: «il carattere apolitico è da lungo tempo una tradizione in particolare dell’esercito degli Stati Uniti».[9]
Quest’ultima affermazione è assai contestabile. La presunta terzietà delle forze armate statunitensi è, al più, un’illusione ottica derivante dalla sostanziale concordanza di fondo tra i due grandi partiti dopo la Seconda Guerra Mondiale, specialmente con riguardo alla politica estera e alla dottrina dell’eccezionalismo americano – in poche parole, l’idea che fin dal 1776 gli Stati Uniti abbiano mostrato un’evoluzione storica eccezionale, cioè totalmente diversa da quella di qualsiasi altra nazione, in quanto fondata fin dall’inizio su alcuni valori chiave (libertà, individualismo, repubblicanesimo) che la pongono su un piano di superiorità morale e storica.
Ma il fatto che democratici, repubblicani ed esercito siano stati dopo il 1945 perlopiù uniti sulle rotte fondamentali della politica estera non può oscurare che la separatezza delle forze armate sia stata più una pretesa di autogoverno non responsabile di fronte al potere civile che un’autonomia dai partiti politici. È noto che, almeno negli ultimi anni, il vero referente politico dei militari fosse il senatore McCain e, dopo che il senatore Graham si è rivelato incapace di assumerne il ruolo, probabilmente esso è ora ricoperto proprio da Mattis.
In realtà, dopo il 1945 il rischio che i militari si impadronissero del governo politico del Paese fu tale che furono prese misure legislative per imporre loro di non poter assumere cariche di governo se non dopo sette anni dal pensionamento – una misura che, per nominare Mattis al Pentagono, fu aggirata con un voto quasi unanime del Senato. Sono note le pressioni di McArthur per fare della guerra di Corea un conflitto anticomunista su scala continentale, scopo per il quale egli contattò governi stranieri e fu poi rimosso dal comando. Ma il primo nuovo Presidente eletto dopo la guerra fu proprio uno dei più alti generali, Eisenhower, nel 1952, e proprio lui terminando il mandato ammonì i concittadini sul rischio posto alla libertà dallo strapotere del complesso militare-industriale. L’influenza che questo complesso esercitò sulle successive amministrazioni di John Kennedy e Lyndon Johnson è fin troppo nota. E in tempi più recenti ricordiamo tutti come a luglio 2010 il comandante delle truppe in Afghanistan, generale Stanley McChrystal, sia stato di fatto rimosso da Obama per i severi giudizi critici riportati su una rivista: segno di un dissenso nell’esercito che era del tutto politico.
L’unico periodo nella storia degli Stati Uniti in cui i militari hanno esercitato davvero, su larga scala, il potere politico, è stato nei dodici anni (1865-1877) susseguiti all’assassinio di Abraham Lincoln, in cui il Sud sconfitto fu mantenuto sotto occupazione militare e il comandante in capo delle truppe nordiste, Ulysses Grant, rivestì la Presidenza (dal 1869).
Nelle parole di Mattis risuona tuttavia l’intenzione di un nuovo protagonismo dell’esercito. Le forme di questo protagonismo ci sono per ora ignote, ma la condizione disastrata della società statunitense sotto vari rispetti è tale da aprire spazi per diversi generi di avventura.
Dopo la dichiarazione di Mattis una serie di esponenti dell’esercito ha preso analoghe posizioni: l’ex comandante in Afghanistan John Allen, l’ex capo di stato maggiore Mike Mullen e persino l’attuale segretario della Difesa Mark Esper, anch’egli un passato in uniforme come tenente colonnello.[10] Questi, del resto, aveva già ricevuto per conoscenza un memorandum inviato il 2 giugno dal Capo di Stato Maggiore, generale Mark Milley, ai capi degli stati maggiore delle otto forze armate. Nella lettera Milley richiamava i militari a mantenere il giuramento di fedeltà alla Costituzione e ai diritti che essa riconosce ai cittadini – un richiamo accentuato da un’aggiunta scritta a mano sul testo stampato.[11]
Ci si interroga se Esper resterà a lungo al suo posto; uno degli aspiranti alla successione, il senatore repubblicano Tom Cotton, si è affrettato a scrivere sul New York Times – fatto che ha provocato una rivolta dei dipendenti del giornale[12] – che ciò che serve è l’uso dell’esercito nelle strade per «una schiacciante dimostrazione di forza».
L’interpretazione prevalente delle posizioni assunte in questi giorni da alte figure dell’esercito è che esse abbiano rifiutato quella sorta di golpe “morbido” richiesto da Trump. Se questo certamente significa che Trump non potrà usare l’esercito per restare al potere in caso di sconfitta alle presidenziali, né per rinviare le elezioni, ci sono due interrogativi ai quali la risposta è meno sicura.
Se Trump sarà rieletto e cercherà di impiegare le forze armate come strumento di dominio, in che modo esse reagiranno?
Ed è possibile che le forze armate stesse possano trovare, oggi o nei prossimi mesi, motivi e occasioni per assumere direttamente un ruolo di guida politica?
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https://edition.cnn.com/2020/05/30/opinions/2020-echoes-of-1968-zelizer/index.html ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/how-lots-of-white-democrats-ended-up-protesting-the-death-of-george-floyd/ ↑
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https://www.businessinsider.com/bus-drivers-unions-refuse-transport-arrested-protesters-new-york-minneapolis-2020-6?IR=T ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/after-minneapolis-can-trumps-law-and-order-strategy-work/ ↑
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https://www.prri.org/research/poll-1950s-2050-divided-nations-direction-post-election/ ↑
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https://www.ilbecco.it/allindomani-del-super-tuesday-lascesa-di-biden-e-i-limiti-di-sanders/ ↑
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https://edition.cnn.com/2020/06/03/politics/mattis-protests-statement/index.html ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/trumps-use-of-tear-gas-to-break-up-a-protest-undermined-three-core-values-of-american-democracy/ ↑
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https://edition.cnn.com/2020/06/04/politics/donald-trump-james-mattis-esper-protests/index.html ↑
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https://organizeandwin.com/issue-123-how-trump-lost-the-war-room/ ↑
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https://www.politico.com/news/2020/06/04/tom-cotton-stands-by-controversial-new-york-times-op-ed-300916 ↑
Immagine di Daniel Arauz (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.