Polonia e Ungheria hanno messo il veto sull’approvazione del bilancio Ue, bloccando in questo modo anche lo stanziamento dei fondi previsti dal Recovery Fund. La motivazione di questa scelta va ricercata nell’introduzione nel Bilancio europeo di una clausola che vincola l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto. I governi sovranisti di Budapest e Varsavia, spesso accusati di palesi violazioni dei diritti civili e politici, amplificano così la frattura politica con la Commissione e con l’asse franco-tedesco. Si incrina così l’idea di un’Europa solidale e unita di fronte alla pandemia e sembrano riemergere le vecchie diatribe e debolezze che hanno spesso caratterizzato la politica comunitaria. Sullo stato dell’Unione Europea, il 10 mani della settimana.
Leonardo Croatto
Tra le molteplici contraddizioni che la pandemia in corso ha fatto esplodere c’è anche la tenuta del progetto Europa: un collage di Stati autonomi e in competizione tra loro, tenuti assieme più da interessi di natura economica che da una visione politica comune, ed espansosi verso est sulla spinta di interessi geopolitici altri rispetto al proprio consolidamento.
I governi di Ungheria Polonia per anni hanno ignorato i principi del diritto che caratterizzano le democrazie liberali, in una deriva a destra ampiamente prevedibile già alle origini. I due paesi avevano già manifestato gli effetti politici della cura neoliberista: agli inizi degli anni 2000 la Polonia, pochi anni dopo l’Ungheria.
In entrambi i paesi sia l’indipendenza della magistratura che l’indipendenza della stampa erano salatate già da un pezzo, eppure fino ad oggi in Polonia ed Ungheria si sono riversati un fiume di miliardi di finanziamenti senza alcun tipo di valutazione politica o di vincolo di spesa. Orban coi soldi della UE ci si è costruito buona parte del suo successo politico.
Alla Merkel è affidato il compito di negoziare un accordo con i due stati, schiacciata tra gli interessi delle industrie del suo paese in Ungheria e Polonia e la pressione di quegli stati, Olanda in testa, che non vedono affatto positivamente il finanziamento delle fragili economie degli stati di periferia. A nessuno evidentemente è parsa ridicola l’idea di piegare dall’esterno, con il ricatto del blocco di finanziamenti, le dinamiche politiche interne di uno stato.
Il Parlamento – unica istituzione europea eletta – sarà chiamato ad un voto sul dispositivo finale. Dove invece si avvierà una riflessione sul percorso per dare al progetto Europa una vera coesione politica non è dato sapere.
Piergiorgio Desantis
Continua la “novella dello stento” dell’UE, dopo la prima spinta propulsiva a seguito della nascita. La situazione si è incagliata (ormai da tempo) in secche assai preoccupanti. La fase della tremenda austerità che ha colpito soprattutto le periferie lontano da Bruxelles sembra essere ormai alle spalle (anche se non va dimenticata tra l’altro). Purtuttavia, la presente fase “espansiva” (accolta tra molte virgolette), dovuta alla crisi economica aggravata dalla pandemia, entra anch’essa in uno stallo dovuto al veto di una parte dei paesi che fanno riferimento al patto di Visegrad.
Per come si sono sviluppate e strutturate le istituzioni europee, l’attuale situazione generale sembra dar ragione a chi pensa all’irriformabilità dell’UE. Eppure mai come oggi c’è bisogno della presenza dell’Europa che possa dare sostegno e rilancio alle politiche di (ri)occupazione dei diversi stati. Allo stesso tempo, già vediamo la funzione importante che sta svolgendo la Banca Centrale europea di acquisto e sostegno dei titoli di debiti pubblici statali, tra l’altro smentendo la presunta estrema necessità dei fondi MES.
Ecco perché il tema della riformabilità delle istituzioni europee e, allo stesso tempo, l’utilizzo dei fondi europei sono due tracce dello stesso tema da sviluppare. Nel corpo del tema ci sono due possibili sviluppi (tertium non datur): o presenza consolidamento e rilancio dell’UE in un mondo multipolare che si sviluppa grazie anche a un rinnovato mercato interno, oppure un ruolo residuale e di testimonianza decadente.
Dmitrij Palagi
Il Trattato sull’Unione europea, all’articolo 2, richiama i valori del rispetto dello Stato di diritto. La versione firmata nel 1992 riporta le decisioni di dodici Paesi, tra cui figurano ben sei monarchie (una delle quali uscita, vista la Brexit), poi aggiornate con il Trattato di Lisbona nel 2006, includendo come allegato la Carta dei diritti, a cui viene dato carattere vincolante. Senza stato di diritto non c’è Unione europea, ama dire questo livello istituzionale.
Appare quindi una forzatura la scelta di vincolare le questioni di bilancio a una condizione che dovrebbe essere vincolante anche su tutto il resto. Visto il comportamento che le varie istituzioni hanno avuto con la Grecia di Tsipras è corretto evitare di giudicare la situazione sulla base della simpatia verso i governi di Ungheria e Polonia, rispetto ai quali non si vuole negare la gravità dei processi che li stanno segnando.
I nodi però sono più ampi di quanto viene ricostruito nel dibattito pubblico abitualmente.Sicuramente c’è il punto della sovranità. La dimensione nazionale in che relazione si pone con l’Unione europea, vista la non rilevanza del Parlamento di Strasburgo nei processi decisionali? Tutto è in realtà schiacciato sulla tecnica o sugli esecutivi dei singoli Paesi. Se così è, diventa opinabile voler delegittimare questo o quel Governo, utilizzando quello che appare un vero e proprio ricatto: o rispetti la mia interpretazione delle regole o ti costringo a rinunciare al denaro.
L’altro nesso è quello tra stato di diritto e stato sociale, che è alla base dello stato contemporaneo. Non tutti i diritti fondamentali sono giudicati ugualmente importanti. Negli istituti penitenziari, in modo particolare in Italia, la dignità umana è negata. La tortura di stato è più che tollerata. La partecipazione alla vita pubblica è concessa solo entro certi limiti (nella cosiddetta fase 1 della pandemia Covid-19 era impossibile manifestare, mentre oggi, anche nelle zone rosse del nostro paese, è lecito organizzare presidi, rispettando distanziamento e altre misure specifiche di carattere sanitario).
Lo stato di diritto non è una categoria definita in modo assoluto e neutrale. Risente del momento storico e dei rapporti di forza.
I governi di Ungheria e Polonia stanno usando uno strumento che hanno per uscire da una condizione che ritengono essere di isolamento.
Se dei Paesi non rispettano delle regole che fondano le basi dell’Unione di cui fanno parte il punto non è se permettere loro di accedere o meno alle risorse comunitarie: il punto è cosa ci stanno a fare. Da cui consegue quale è il campo della sovranità che viene concessa a ogni nazione, rispetto alla dimensione europea, che non gode di un pubblico riconoscimento di legittimità diffuso, in senso democratico liberale. In modo provocatorio: prendersela con Ungheria e Polonia appare il modo migliore per non affrontare il tema, affogandolo nell’illusione che il Recovery Fund risolverà tutti i problemi di un ente che ha l’assoluta necessità di essere ripensato.
L’Unione Europea non funziona, o meglio nessuna delle forze attualmente al governo ha intenzione di farla funzionare, dibattito sul sovranismo populista di facciata a parte. Anche perché il sogno europeo tanto declamato era federale. Una forma di cui abbiamo scritto la settimana scorsa parlando di Stati Uniti, che è stata ignorata negli ultimi anni. Ungheria e Polonia sono i nemici di comodo di questa fase per non affrontare “la fine dell’Europa” tanto temuta.
Jacopo Vannucchi
Le motivazioni addotte per l’impraticabilità di espellere dalla UE Polonia e Ungheria vanno grottescamente al cuore di un problema fondamentale riguardante il pluralismo, ossia il paradosso che si verifica quando lo stato di diritto viene applicato anche nei confronti di chi lo rifiuta. Quest’ultimo gode quindi di tutti i vantaggi delle guarentigie legali senza però dover sottostare ad alcun obbligo imposto da esse, qualificandosi come un esempio di free-rider di altissimo livello.
Il problema, in particolare, assume contorni tragicomici laddove si osserva che l’art. 7 del Trattato di Lisbona prevede che l’espulsione venga deliberata all’unanimità degli stati membri, tolto ovviamente da essi l’accusato, ma non prevede alcun meccanismo per espulsioni plurime in simultanea. Nel caso di specie, la Polonia non può essere espulsa per via del veto ungherese e viceversa.
Personalmente ritengo che nessuna carta costituzionale possa di per sé sola costituire un baluardo contro fenomeni politici pericolosi, perché questi possono essere contrastati solo da una corrispondente risposta sul piano politico e sociale. Perciò non ritengo neppure che a questa risposta si possa abdicare in nome dell’osservanza di testi costituzionali che mostrano plasticamente la loro inadeguatezza a proteggere la società dalle correnti fasciste.
Altre obiezioni sono ancor più superabili: ad esempio il peggioramento delle condizioni interne, l’inasprimento dell’autoritarismo, la perdita di opportunità per giovani polacchi e ungheresi di formarsi in Europa, potrebbero tutti essere affrontati con campagne di propaganda e sensibilizzazione del tenore di quelle strombazzate per la Bielorussia o per l’Ucraina, nonché con programmi ad hoc di accoglienza per rifugiati.
Anche per quanto riguarda il pericolo che Polonia e Ungheria in condizione di paria vengano risucchiati nell’orbita russa o cinese, è assai bizzarro che esso venga paventato quando da settantuno anni la NATO costituisce il maggiore ostacolo all’integrazione europea, cosa che di sfuggita consente anche che l’Europa possa essere un campo di battaglia fra Stati Uniti e Russia.
Proprio l’assenza di un’autonomia militare europea, oltre che di una robusta politica economica unitaria che consenta di rinunciare a quei due mercati, rende probabilmente ragione della continuata permanenza in UE dei due stati.
Alessandro Zabban
Lo scontro tra Bruxelles e i Paesi sovranisti di Polonia e Ungheria si protrae da anni.
Le istituzioni europee hanno però pochissimo potere nel contrastare le gravi violazioni dei diritti politici e civili in questi due paesi e per arginare l’autoritarismo dei loro governi. Il meccanismo che vincola l’erogazione dei fondi ai Paesi al rispetto dello stato di diritto si dimostra uno strumento del tutto insufficiente e inadeguato se poi gli Stati possono mettere il veto su tutto il bilancio. Lo strumento ha anzi portato a un pericoloso stallo nelle trattative: bloccando il bilancio, si blocca anche lo stanziamento dei fondi del Recovery Fund, che in Paesi come l’Italia sono ritenuti, a torto o a ragione, essenziali per la ripresa.
Inoltre, viene messa in ridicolo l’idea propagandata da molti europeisti sul presunto cambio di passo dell’Europa di fronte alla pandemia, non più così austeritaria forse, ma comunque non certo solidale ed unita.
L’Europa non si può più permettere queste inutili e ipocrite messinscene: o si dà priorità all’emergenza pandemica ed economica e si chiudono tutti e due gli occhi sulle politiche di Varsavia e Budapest (e anche di Praga) in nome della ripresa, oppure si ritiene intollerabile il comportamento dei paesi sovranisti e si interviene con il pugno di ferro, anche a costo di fare uso di strumenti non ortodossi o non previsti dai trattati. La via di mezzo attuale è un subdolo tentativo di salvare l’immagine democratica dell’Unione senza però rompere con Polonia e Ungheria, evento che avrebbe delle ricadute pesanti sull’assetto comunitario.
Immagine dettaglio da www.pxfuel.com

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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