Nei decenni in cui gli Stati Uniti hanno esercitato la funzione di «poliziotto del mondo»[1] si poteva leggere, più o meno provocatoriamente, che poiché il loro Presidente esercitava un’influenza su tutto il mondo allora avrebbe dovuto essere eletto dai cittadini di tutto il mondo.
La profonda ironia del reale è che il Presidente USA, come noto, non è eletto neppure dai cittadini degli Stati Uniti. In effetti, soltanto due sono le cariche federali elettive – Presidente e Vicepresidente – ed entrambe sono elette non dal popolo, ma dal Collegio Elettorale, ossia i delegati degli stati (i grandi elettori), il cui numero corrisponde a quello dei parlamentari federali eletti da ciascuno stato (due senatori più un numero di deputati variabile in base alla popolazione).
Oggi i grandi elettori sono eletti dal popolo con la cosiddetta «scheda corta» (short ballot), nella quale compaiono i nomi dei candidati Presidente e Vicepresidente e a cui sono collegati i relativi grandi elettori. Questa non è sempre stata la regola: agli albori della repubblica i grandi elettori erano scelti (così come i senatori) dai parlamenti statali e ancora nel XX secolo alcuni stati li eleggevano sì per voto popolare, ma uno per uno singolarmente tramite il voto di preferenza. Quest’ultimo meccanismo ebbe il suo ultimo momento di gloria nel 1960, quando il Partito Democratico del Mississippi e quello dell’Alabama, legati a doppio filo al Ku-Klux-Klan, lo usarono per eleggere delegati non collegati a John Kennedy, cattolico e antisegregazionista.
Del resto cento anni prima, nel 1860, proprio molti stati del Sud usavano ancora l’elezione indiretta tramite i parlamenti statali che rappresentavano l’élite dei piantatori schiavisti.
La lunga sopravvivenza di questi metodi elettorali arcaici negli stati più reazionari evidenzia bene due fili conduttori del sistema costituzionale statunitense, ossia il mancato riconoscimento del suffragio universale, che è una figura non prevista dalla Costituzione (il diritto di voto è stato esteso solo in negativo, vietando cioè di negarlo agli ex schiavi, alle donne, ai diciottenni, ecc.) e il potere conservatore degli stati (specialmente quelli meno popolosi, cioè più rurali).
Quest’ultima funzione, incarnata nel Senato e nelle modalità di elezione del Presidente (e del suo Vice), era stata pensata dai costituenti con due obiettivi: impedire che la maggioranza esercitasse un’oppressione tirannica sulla minoranza; frenare le spinte progressiste, assegnando di fatto al Senato il ruolo rivestito dalla Camera dei Lord in Gran Bretagna.
Tale caratteristica ha condotto però negli ultimi trent’anni ad esiti irrazionali e formalmente antitetici rispetto al disegno repubblicano originario. Il Partito Democratico ha vinto il voto popolare di tutte le elezioni presidenziali dal 1992 in poi, con una sola eccezione (la rielezione di George W. Bush nel 2004). Ma, in particolare, negli ultimi vent’anni il Partito Repubblicano ha ottenuto tre mandati presidenziali su cinque, pur avendo vinto il voto popolare una sola volta.
La natura del fenomeno è nota: nel momento in cui la polarizzazione politica tra città e campagna si intensifica, aumenta il vantaggio strutturale del partito che predomina negli stati rurali.
L’effetto distorsivo però è ancora maggiore sul Senato. Se i grandi elettori mantengono, se non una proporzione stretta, almeno una correlazione con la popolazione statale, i senatori sono costituzionalmente due per ciascuno stato. Secondo le stime dell’anno 2019[2], il 50% più popoloso dei 50 stati comprende l’84% della popolazione dell’Unione. Questo squilibrio, e la sempre minore quota di elettori che dividono il proprio voto fra i due partiti[3], ha fatto sì che negli ultimi cinquant’anni le maggioranze democratiche al Senato abbiano sempre rappresentato maggioranze di elettori, mentre alle maggioranze repubblicane questo è accaduto soltanto in due anni (legislatura 1997-98) su ventidue.[4]
Le richieste di abolire il Collegio Elettorale non sono nuovissime: il problema fu già affrontato nel 1968 quando la candidatura terza del segregazionista Wallace pose il rischio di un Presidente eletto con pochi voti popolari. Poiché sia il vincitore Nixon sia l’avversario democratico Humphrey riuscirono a superare la soglia psicologica del 40% la prospettiva di adottare un’elezione diretta con eventuale doppio turno fu rapidamente accantonata. Oggi il tema della riforma istituzionale è tornato prepotentemente in auge, da ambo le parti.
I democratici vorrebbero abolire il Collegio Elettorale e, nel frattempo, sempre più frequentemente stati a maggioranza democratica deliberano unilateralmente di assegnare i propri voti elettorali al vincitore del voto popolare. Gli stati che adottano quest’ultimo meccanismo si sono uniti nel National Popular Vote Interstate Compact (“Blocco interstatale per il voto popolare nazionale”) e intendono attuarlo effettivamente quando avranno raggiunto assieme i 270 grandi elettori che costituiscono la maggioranza assoluta dei 538 totali. (Al momento gli stati che hanno aderito al NPVIC contano 196 grandi elettori, cui si aggiungono altri 64 degli stati che stanno considerando l’adesione.)
Su un altro versante, i repubblicani intendono non solo mantenere il Collegio Elettorale, ma scindere l’assegnazione dei grandi elettori: non più l’intero blocco al vincitore dello stato (meccanismo dello winner-take-all), bensì due al vincitore dello stato e i restanti al vincitore in ciascuno dei collegi per la Camera dei Rappresentanti in cui ogni stato è diviso. Idealmente i primi corrispondono ai due senatori eletti statalmente mentre gli altri, ovviamente, ai deputati. I voti democratici, però, sono concentrati in modo abnorme nelle grandi aree urbane, mentre nelle altre zone – suburbane e rurali – la distribuzione del voto è meno sperequata. Per avere un confronto immediato, nel 2016 i dieci collegi più repubblicani dettero a Trump una quota di voti compresa fra il 75 e l’80%, mentre i dieci collegi più democratici votarono Clinton tra l’86 e il 94%. Come risultato, Trump vinse in 230 dei 435 collegi.
Questo sistema è già in vigore in due stati minori: il Maine (tendenzialmente democratico) e il Nebraska (repubblicano). Ma solo negli ultimi anni è stato effettivamente applicato: nel 2008 Obama prevalse nel collegio più urbano fra i tre del Nebraska, quello della città di Omaha, mentre nel 2016 Trump ha vinto nel collegio rurale del Maine (il meno densamente popolato a est del fiume Mississippi). Queste due novità sono la conseguenza della crescente polarizzazione città/campagna, la cui cristallizzazione aumenterebbe ancor più il vantaggio strutturale che già i repubblicani hanno nel voto per grandi elettori. Se applicato nel 2016, la Clinton avrebbe perso le presidenziali anche con un vantaggio di 5 punti nel voto popolare.[5]
Per queste ragioni è impossibile, di fatto, l’abolizione a breve del Collegio Elettorale. Essa richiederebbe un emendamento costituzionale, per il quale serve l’approvazione dei due terzi in ciascuna Camera e la ratifica dei tre quarti degli stati. Non è certamente ipotizzabile che il Partito Repubblicano possa rinunciare al vantaggio di un sistema che, congegnato in origine per evitare lo strapotere della maggioranza, ha finito per consentire il governo della minoranza – questa minoranza essendo oggi la popolazione bianca meno istruita e più rurale, che si sente minacciata dai cambiamenti demografici e culturali.
Per aggirare l’opposizione repubblicana i democratici procedono quindi per una pluralità di altre vie legislative.
Anzitutto la lotta per riautorizzare il Voting Rights Act, magari con qualche rafforzamento rispetto alla versione oggi vigente solo sulla carta perché mutilata nella sua efficacia dalla Corte Suprema nel 2014 – la Corte, ritenendo le disposizioni del 1965 ormai superate, le ha invalidate in attesa di una nuova delibera del Congresso, ad oggi impossibile per l’opposizione repubblicana. La morte di John Lewis ha riacceso questo terreno di scontro, con una rinnovata offensiva per chiedere la garanzia del diritto di voto per le minoranze razziali.
In secondo luogo, la Camera dei Rappresentanti ha approvato di recente l’ammissione del Distretto di Columbia (che comprende la capitale Washington) come 51° stato dell’Unione. Trattandosi di un’area metropolitana a maggioranza afroamericana, in cui i democratici raggiungono regolarmente il 90% dei voti, essa garantirebbe costantemente due senatori di sinistra. Ma se anche il D.C. venisse ammesso come stato, e se anche la stessa cosa venisse fatta per Puerto Rico, e ammesso che i democratici riuscissero ad eleggere i quattro senatori, nell’attuale panorama ciò ancora non basterebbe per avere la maggioranza: da 47 su 100 l’asinello passerebbe infatti a 51 su 104, con un ulteriore aggravarsi dello squilibrio tra maggioranza popolare e maggioranza politica.
Infine, una legislazione onnicomprensiva per il riordino dei diritti elettorali, il For The People Act, è stata la prima proposta di legge presentata dalla nuova maggioranza democratica alla Camera nel 2019. La legge introdurrebbe il finanziamento pubblico delle campagne elettorali agganciandolo al volume delle piccole donazioni, aumenterebbe la regolamentazione sui grandi finanziamenti, imporrebbe nuovi obblighi di trasparenza fiscale ai candidati, renderebbe festivo il giorno delle elezioni e creerebbe un registro nazionale degli elettori. Questa legge, che come l’ammissione del D.C. potrebbe entrare in vigore nel caso in cui a novembre i democratici mantengano la Camera e vincano la Presidenza e il Senato, chiede anche un emendamento costituzionale per annullare la sentenza “Citizens United” con cui nel 2010 la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali i limiti ai finanziamenti elettorali da parte delle grandi aziende.
L’emendamento contro la Citizens United, così come quello per l’abolizione del Collegio Elettorale, non ha alcuna speranza di essere approvato. Tuttavia, le richieste di riforme istituzionali sono anche più radicali: l’aumento dei componenti della Camera dei Rappresentanti, possibile per legge ordinaria, e l’abbassamento a 16 anni del diritto di voto e l’abolizione del Senato[6] che richiedono invece una revisione costituzionale.
È stato giustamente osservato che l’ultimo periodo in cui la società statunitense è stata così divisa, e così tanto una parte ha percepito le istituzioni come iniqua trincea di una minoranza, è stato il decennio precedente alla Guerra di Secessione. Degenerazioni belliche sono forse improbabili oggi, ma certamente l’intensità dello scontro sociale non diminuirà, quali che siano i risultati delle presidenziali.
Immagine da www.flickr.com
[1] Seppur con alcune prospettive discutibili (“campagne militari russe aggressive” in Ucraina, Siria e Libia?) trovo qui ben ricostruito il declino della pretesa USA di esercitare l’iperpotenza: https://www.ilpost.it/2020/08/01/declino-stati-uniti-trump/
[2] https://www.census.gov/data/tables/time-series/demo/popest/2010s-state-total.html
[3] https://fivethirtyeight.com/features/why-gop-senators-are-sticking-with-trump-even-though-it-might-hurt-them-in-november/
[4] https://edition.cnn.com/2020/08/11/politics/2020-election-popular-vote-electoral-college/index.html
[5] https://fivethirtyeight.com/features/under-a-new-system-clinton-could-have-won-the-popular-vote-by-5-points-and-still-lost/
[6] https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2018/12/john-dingell-how-restore-faith-government/577222/
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.