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Marzo 31, 2020

Stati europei, pandemia e interventi economici

Dieci Mani A Dieci Mani

Il 25 marzo Mario Draghi interviene sul Financial Times (la traduzione disponibile anche qui). Un contributo scritto che ha grande risonanza in tutto il vecchio continente e ovviamente in Italia. La penisola mediterranea è tra le nazioni più interessate dagli effetti del COVID-19 e nelle ultime ore si sono susseguite numerose dichiarazioni ufficiali. Il 27 marzo è la volta di un discorso del presidente della Repubblica, con tanto di fuori onda su sui si è concentrata una parte importante del dibattito pubblico nazionale. Si è aggiunta il 29 marzo una conferenza stampa del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro dell’Economia, in cui sono stati annunciati interventi economici inediti nella recente storia europea e durante la quale è stata duramente criticata la presidente della Commissione Von Der Leyen, per le dichiarazioni con cui avrebbe escluso ogni ipotesi relativa ai cosiddetti “Eurobond / covid bond”. Ruolo degli stati europei e Unione Europea sono al centro della discussione politica ed economica italiana. Scegliamo di occuparcene anche noi, con la nostra rubrica a più mani.


Leonardo Croatto

Gli ultimi eventi politici legati alla crisi sanitaria in corso hanno svelato il proverbiale segreto di Pulcinella: l’Europa Unita non esiste. L’Europa Unita è al massimo la somma di un certo numero di stati nazione che hanno, per interesse economico comune, azzerato i costi di attraversamento delle frontiere per merci e persone e unificato la moneta per renderla più forte rispetto alle altre.
Politicamente, l’Europa resta divisa fra un piccolo numero di grandi economie che meglio sono riuscite a capitalizzare questo nuovo sistema di relazioni e le altre economie periferiche più fragili, poste in condizione di sudditanza.
Certo, è del tutto evidente che queste economie più fragili hanno le loro responsabilità se non sono state in grado di restare competitive in uno spazio che è chiaramente non collaborativo, ma, così organizzata, più che un sistema comune in cui forze e fragilità si compensano tra loro per creare una democrazia più ampia, stabile e solida, l’Europa è solo lo spazio di conquista di un gruppetto di grandi potenze.
Fra i capitalisti e fra le potenze sono certamente possibili degli accordi temporanei, e in questo senso è stato anche possibile realizzare gli Stati Uniti d’Europa – come accordo fra i capitalisti europei – ma in un regime capitalistico non è possibile altro principio di coesione, di strutturazione politica, che la misura dei rispettivi rapporti di forza.
In un contesto politico-economico capitalistico le economie più forti non hanno alcun motivo di dividere con altri il proprio reddito nazionale se non per ottenerne il vantaggio di una moltiplicazione del capitale investito. Predicare una redistribuzione in senso solidaristico su tale base è proudhonismo. Per come è organizzata l’Europa Unita adesso, non si danno altre relazioni se non secondo la forza.
Resta aperto lo scontro, di idee e di pratiche, tra chi vede come uscita da questo sistema il ritorno agli stati nazione fuori da qualsiasi patto di relazione – il mito reazionario della piccola patria – e chi vuole la fine della competizione tra stati, fino alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici, anche partendo dalla trasformazione dei rapporti economici e politici in una sola nazione e poi contagiandone altre.
E si, questo pezzo non l’ho scritto io. L’ho adattato da una cosa che un tizio molto famoso aveva scritto, con grande visione profetica, nel ’15.


Piergiorgio Desantis

Mario Draghi, con il suo lungo articolo sul Financial Times, è entrato davvero nel merito del dibattito che c’è a livello europeo. Da una parte gli stati del centro-nord europa che continuano a resistere e opporsi all’aumento del debito (anche attraverso forme di finanziamento, per esempio i cosiddetti corona-bond) dall’altra i paesi europei dell’area mediteranea cui sembrerebbe si siano aggiunti anche i paesi baltici che necessitano e chiedono tutti la possibilità di spendere a debito per la tenuta e per la ricostruzione che verrà. Questo scontro, ormai nemmeno troppo velato, è la dimostrazione del momento cruciale che vive l’UE; è in ballo non solo per la tenuta europea, ma anche per il senso e l’esistenza di questa stessa struttura sovranazionale. L’intervento di Draghi è assai importante perché chiede un aumento generalizzato del debito pubblico per compensare la debaclé economica in atto e tutti i debiti privati che sorgeranno. Per almeno quarant’anni economisti mainstream e la gran parte dei politici ci hanno ripetuto che un debito elevato sarebbe stato intollerabile per la tenuta del sistema statale, aggiungendo, come corollario, che lo Stato stesso si sarebbe dovuto ritrarre anche in ambiti fondamentali vedasi sanità, casa, scuola, istruzione etc. Si è deciso, soprattutto nei paesi più deboli economicamente, di volere uno Stato che alcuni hanno definito “anoressico”, forse perfino morente. Oggi, tranne che pochi pasdaran del liberismo, è in atto una torsione a U: è chiaro, quindi, che gli ultimi quarant’anni si è effettuata una scelta politica sbagliata, tra l’altro. Pertanto, è da accogliere con favore questo cambiamento in atto, continuando però a riflettere e intervenire su chi pagherà a caro prezzo questa ennesima crisi, chi ne usufruirà e sul ruolo rinnovato e centrale dello Stato, non solamente nel dirigere la ricostruzione, ma come attore di primo piano nel panorama industriale. Aspetto, quest’ultimo, totalmente assente nelle parole di Draghi. Non è certo un caso.


Dmitrij Palagi

Il capitalismo risulta in crisi permanente, a leggere ingenuamente le pubblicazioni dal secondo Novecento all’oggi (ovviamente facendo riferimento a uno specifico campo editoriale della sinistra di alternativa). L’attuale sistema economico e politico capisce bene di non poter sopravvivere senza un minimo di adattamento al mutamento significativo che sta avvenendo a livello globale. La lettera di Draghi suggerisce una via riformista e in parte progressista, capace di non mettere in discussione gli attuali equilibri nei rapporti di potere tra le classi (prive di coscienza per quanto riguarda molti casi tra i lavoratori e le lavoratrici). Il discorso del Presidente della Repubblica, la conferenza stampa di sabato del Presidente del Consiglio dei Ministri e le dichiarazioni trasversali dei protagonisti politici italiani vanno nella stessa direzione: o si cambia un minimo passo, o dovrà cambiare sulle ceneri dell’illusione europeista. L’Unione Europea nasce come speranza di pace e si conferma percepita come ostacolo alla sopravvivenza del genere umano, in questi giorni. Ovviamente l’affermazione è semplificata e provocatoria, ma il dibattito pubblico rischia di polarizzarsi. L’intervento di Draghi è un tentativo di evitare tale definitiva lacerazione del confronto tra livelli istituzionali.
Rimane in tutta Europa un enorme problema di sovranità. Questa può esprimersi in modo partecipato solo se la politica e le sue forme organizzative recuperano credibilità e tornano a essere luoghi in cui si vive (in forma anche nuove) una discussione ampia.
Di patrimoniale pare non si possa parlare, di ripensare il mondo in cui viviamo sulla base dei bisogni delle persone nemmeno. Pare importare poco la condizione psicologica della maggioranza di una popolazione che si pensava consumatrice e si scopre sopravvivere anche con parti estranee al mercato. Persino la costante presenza sui social non può consolare.
L’Italia si è spostata di fatto su un fronte europeista progressista, con sapori da Seconda Repubblica. L’alternativa di destra non ha grande credibilità ma esiste. Quella della sinistra avrebbe sicuramente un senso… occorre vedere se e come si concretizzerà.


Jacopo Vannucchi

L’economia occidentale è arrivata all’appuntamento con il Covid-19 nelle condizioni di un uomo che si trovi con le punte dei piedi oltre il ciglio di un baratro. La pandemia ha fornito, in luogo della proverbiale spintarella, una violenta mazzata in avanti.
Il Commissario europeo agli Affari economici, Gentiloni, ha osservato che la discussione interna ai 27 stati UE sarà irrisolvibile se verterà sui mezzi (eurobond, Mes, eccetera) ma potrebbe trovare un punto di caduta se affrontata partendo dai fini, ossia dal contrasto all’emergenza sanitaria (e, ci si augura, alle sue conseguenze economiche). Un simile ragionamento, che è sicuramente veritiero e necessario per trovare un’intesa, continua però ad oscurare il motivo di fondo della crisi. Fin dalla scuola elementare ci insegnano che l’attentato di Sarajevo nel 1914 non fu la causa della Prima guerra mondiale, ma piuttosto la «miccia» che fece saltare la polveriera. Il Covid-19 è esattamente questa miccia che manda in pezzi un sistema già arrugginito.
Naturalmente di questo solo in pochi non sono consapevoli: soltanto, pare che non si possa dirlo. Perché? Per le stesse ragioni che fanno sorgere qualche sospetto di fronte alla straordinariamente bassa mortalità del Covid-19 in Germania (0,93% al 30 marzo). Proprio il 30 marzo si è purtroppo tolto la vita il Ministro delle Finanze dell’Assia, Thomas Schäfer, a quanto pare per la disperazione riguardo il futuro economico del Land. Trattandosi del Land più ricco della Germania e in cui si trova il cruciale centro finanziario di Francoforte sul Meno si può pensare che l’emergenza economica ci sia, eccome.
Dunque perché quello che sommariamente possiamo abbozzare come il “blocco nordico” si oppone così ferocemente alla condivisione di rischi e investimenti? Per lo stesso per il quale finora non sono state prese misure serie contro le violazioni costituzionali attuate negli ultimi anni dai regimi ungherese e polacco, e forse non ne verranno prese neanche ora che l’Ungheria ha delegato il potere legislativo al Governo e la Polonia si avvia a presidenziali-farsa il 10 maggio, per le quali molte città governate dall’opposizione si stanno rifiutando di organizzare i seggi elettorali. Si tratta dei Paesi integrati nel circuito commerciale tedesco.
Al di là delle preoccupazioni monetarie ed economiche tedesche – comunque finirà la crisi UE, anche il giochino tedesco si romperà, viste le forti diseguaglianze interne – è importante che nove Paesi (i PIIGS più Belgio, Francia, Lussemburgo e Slovenia) abbiano preso una posizione comune a favore di un’emissione di titoli europei. Interessante anche la presenza della Slovenia in questo gruppo, visto che essa è stata nell’ultimo trentennio la garante dello sbocco commerciale tedesco sul Mediterraneo. Nel caso di un irrigidimento del “blocco nordico” su posizioni irremovibili, nulla vieta che questi nove Paesi decidano di costituire un proprio consorzio per l’emissione di bond.


Alessandro Zabban

Nei momenti di crisi acuta, i nodi alla fine vengono sempre al pettine e l’Europa si trova a dover prendere decisioni fondamentali e improrogabili sul suo futuro. Gli eurobond non sono la panacea di tutti i mali e anche se venissero attuati non sarebbero una scusa per continuare con le vecchie politiche che ci hanno condotto sull’orlo dell’abisso. Ma è ovvio che la discussione su uno strumento che aiuterebbe non poco le economie europee più fragili, in una situazione tale, diventa uno scontro decisivo sulla natura dell’Europa stessa. Da una parte la possibilità di pensare a un’Europa che si prende in carico il fardello del debito di tutti i paesi membri, coordinando strategie comuni per lo sviluppo, nell’ottica magari di una unione che impedisca la concorrenza al ribasso fra regimi fiscali (data l’insostenibile presenza di paradisi fiscali più o meno mascherati come Paesi Bassi, Irlanda, Lussemburgo, ecc.) fornendo così maggiore carburante per uno sviluppo che dovrà necessariamente ripartire dalla ridefinizione di un ruolo di centralità del pubblico. Dall’altra la possibilità di una rottura insanabile, con una crescita esponenziale di consensi nei partiti antieuropeisti che già ora potrebbero avvantaggiarsi enormemente dalla raccapricciante paralisi dell’Unione di fronte all’emergenza Covid-19.


Immagine da www.pxfuel.com

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Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

archivio.ilbecco.it/autori/itemlist/user/125709-dieci-mani.html
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