di Silvia D’Amato Avanzi e Joachim Langeneck
Lo scorso inverno, la provincia canadese della British Columbia ha proceduto all’abbattimento di centinaia lupi nell’ambito di un programma di conservazione delle renne di alta montagna. Come riportato da The Atlantic, le renne in British Columbia sono da tempo al centro di un acceso dibattito che vede la loro conservazione, già precaria, contrapposta agli interessi di sfruttamento estrattivo del loro habitat.
Fin dalla primavera 2019, i confronti con le comunità locali non hanno che messo a nudo l’incomunicabilità delle parti in causa – l’istituzione di nuove aree protette avrebbe verosimilmente colpito l’economia che ruota attorno al legname di quelle zone; finché nel settembre 2019 il governo della British Columbia ha optato per un’azione apparentemente salomonica: l’abbattimento di 463 lupi, predatori naturali delle renne.
La storia del programma di abbattimento suggerisce più di qualche obiezione sulla vicenda.
Oltre ad aver rappresentato una preziosa fonte di cibo, pelli e lavoro per numerose popolazioni umane, la renna (nota come caribù in Nordamerica) è uno dei mammiferi con la più ampia distribuzione naturale al mondo, dato che si trova nelle aree fredde di Eurasia e Nordamerica. Nonostante la popolazione mondiale di questi animali sia crollata da quasi cinque milioni di individui a poco più di due, quindi, non sembrerebbe essere ad immediato rischio di estinzione. Tuttavia questo non vale per le singole popolazioni, che in Nordamerica (principalmente Canada) possono essere assegnate a tre specifici ecotipi, caratterizzati da adattamenti ad ambienti differenti (le foreste, la steppa artica o tundra e l’alta montagna) e distinti tra di loro anche a livello genetico. In particolare, le renne di alta montagna, che vivono nella parte più meridionale dell’areale, sono rese vulnerabili dal fatto che, vivendo in ambienti coperti durante l’inverno da due o tre metri di neve gelata, dipendono strettamente dalla presenza di licheni arborei, che però crescono solo su alberi abbastanza vecchi, che ovviamente fanno gola all’industria del legname. Questo senza considerare la presenza di depositi di gas naturale al di sotto del loro ambiente. Come conseguenza del taglio delle foreste, le popolazioni sono sempre più sparute e frammentate; con sempre meno contatti, la loro diversità genetica e la loro numerosità si riducono, rendendole sensibili a malattie e predatori. Per questo motivo la renna di alta montagna, pur essendo semplicemente un ecotipo di una specie ancora piuttosto diffusa, è considerata minacciata e sottoposta a misure di protezione e gestione.
Di fronte alla richiesta da parte di varie associazioni ambientaliste di salvare la renna di alta montagna, e nel tentativo di evitare soluzioni impopolari per l’industria del legname e per quella dei combustibili fossili, in soccorso del governo provinciale della British Columbia è arrivato uno studio scientifico che sembrava risolvere alla radice il conflitto tra conservazionisti e compagnie del legname. Secondo gli autori, a partire da Robert Serrouya (direttore dell’Unità di Monitoraggio dei Caribù dell’Università dell’Alberta), per quanto il principale motivo di rarefazione della renna sia la riduzione e frammentazione dell’habitat, per ottenere un recupero ci vorranno numerose generazioni; nel frattempo, si può intervenire a favore della specie a rischio riducendo il numero dei suoi predatori (principalmente i lupi) e proteggendo le femmine gravide attraverso recinzioni. Questa ipotesi era stata dimostrata in maniera apparentemente convincente su diverse popolazioni di renna.
A settembre 2019, il governo della British Columbia presentò il nuovo piano di protezione della renna di alta montagna: non si introduceva nessuna nuova area di protezione, ma si autorizzava l’abbattimento di quasi 500 lupi, nella speranza che la riduzione dei predatori potesse condurre ad un recupero della popolazione di renne di alta montagna.
A un anno dall’entrata in vigore del nuovo programma di protezione, è presto per capire se le misure di conservazione abbiano effettivamente cambiato qualcosa: con una gestazione di circa otto mesi, e la maturità sessuale raggiunta verso i due anni, ci vorrebbe quanto meno una decina di anni per vedere dei cambiamenti significativi. Tuttavia un’idea di quanto sia scientificamente fondato l’abbattimento di lupi come principale misura di conservazione ci viene da un altro studio pubblicato a luglio 2020, che analizza lo stesso set di dati impiegato da Serrouya e colleghi. Harding e colleghi, nel riesaminare il modello che secondo Serrouya e colleghi spiegherebbe il declino delle popolazioni di renna – e quindi permetterebbe di pianificare misure di conservazione – si sono trovati di fronte a diversi problemi.
La prima questione che Harding e colleghi sollevano è che nell’articolo di Serrouya e colleghi manca qualcosa: un modello nullo. Manca, cioè, un confronto tra i modelli proposti – in cui delle variabili di vario tipo vanno a spiegare delle variazioni, positive o negative, nelle dinamiche di popolazione delle renne – e un modello che postuli variazioni completamente casuali, scollegate da qualsiasi variabile. Harding e colleghi operano questo confronto, scoprendo che il modello nullo è sostanzialmente indistinguibile da quello, scelto come il più efficace da Serrouya e colleghi, e quindi dal governo della British Columbia, che presenta come soluzioni la rimozione dei lupi e la protezione delle femmine in gestazione.
In altre parole, nel dataset storico relativo alla gestione delle popolazioni di renna è impossibile identificare un effetto statisticamente significativo di queste pratiche gestionali; eppure l’assenza di un confronto con il modello nullo ha portato all’abbattimento di quasi 500 lupi, a questo punto, molto probabilmente, per nulla.
Il secondo punto sollevato da Harding e colleghi è che nei modelli manca sistematicamente una variabile che potrebbe quanto meno contribuire a spiegare le differenze nelle dinamiche di popolazione: l’ecotipo. Differenti ecotipi hanno una differente autoecologia, parola complicata che significa, semplicemente, che hanno relazioni differenti con l’ambiente che popolano; è sensato pensare, quindi, che non siano egualmente influenzati dalle diverse variabili considerate, e necessitino di diverse misure gestionali. E infatti, non sorprendentemente, il modello alternativo proposto da Harding e colleghi identifica proprio l’ecotipo come la variabile che spiega meglio le dinamiche di popolazione osservate.
Per contro, Serrouya e colleghi hanno considerato come omogenee le diciotto popolazioni studiate, nonostante appartengano a tre differenti ecotipi, e questo invalida fortemente le loro conclusioni. Di nuovo, e non è sorprendente, è proprio la renna di alta montagna ad essere più vulnerabile, proprio per la sua dipendenza da vecchie foreste di montagna.
Non è particolarmente interessante chiedersi come mai Serrouya e colleghi abbiano supportato un modello fallato; vale la pena ricordare che, peraltro, non ne sono gli unici responsabili, dato che l’articolo è stato pubblicato su una rivista estremamente prestigiosa, ed è stato sottoposto al vaglio critico di almeno due (ma probabilmente quattro) revisori esterni e un redattore interno. Del resto, di modelli erronei è lastricata la via della scienza – potremmo dire che senza i modelli sbagliati non avremmo nessuna possibilità di avere quelli giusti – e una situazione del genere per uno scienziato è seccante quanto frequente. La cosa che rende questa situazione preoccupante sono le immediate conseguenze pratiche a livello di politiche ambientali: l’articolo di Serrouya e colleghi, pubblicato a marzo 2019, è stato sbalzato fuori dal dibattito accademico, dritto nella politica, con una risoluzione sviluppata sei mesi dopo; troppo poco per dare alla comunità scientifica il tempo di leggere, valutare, ruminare, rielaborare i dati presentati. Infatti una revisione critica è stata pubblicata a luglio 2020, troppo tardi per limitare una politica ambientale estremamente invasiva, che ha condotto in alcune aree all’abbattimento dell’80% dei lupi presenti.
Appare evidente che il governo della British Columbia ha adottato con sospetta sollecitudine il punto di vista di Serrouya e colleghi, a fronte di vent’anni di letteratura che correla strettamente il declino della renna di alta montagna con la perdita di habitat, proprio perché il modello presentato escludeva la protezione integrale degli ambienti dalle soluzioni a breve termine, e permetteva di evitare un conflitto con l’industria del legname.
La questione a questo punto è intricata: lo sviluppo di modelli statistici per spiegare i processi naturali è non solo un diritto degli scienziati, ma anche una parte fondamentale del loro mestiere, e non si può certo pretendere che i modelli siano tutti corretti; ma al tempo stesso, il modo in cui il modello statistico viene utilizzato dalla politica consiglia una certa cautela, in particolare quando dai modelli possono essere tratte conseguenze applicative.
Una prima riflessione al riguardo è relativa al predominio dei modelli statistici nella previsione, prevenzione e gestione di problemi ambientali. Negli ultimi vent’anni la comunità scientifica ha avuto accesso a strumenti statistici, ma soprattutto computazionali, di livello altissimo, con la possibilità di costruire modelli sempre più precisi e raffinati, ma questo ha spesso avuto come effetto collaterale un’enfasi sul modello a fronte del dato – ossia, l’idea che, una volta sviluppato un modello elegante e convincente, se il dato non vi corrisponde deve esserci un errore in come è stato preso. Questo è sicuramente possibile, ma bisogna ricordare che il modello dipende dai dati, e come un nuovo dato può essere soggetto ad errore, così possono esserlo i dati vecchi, su cui il modello è stato costruito. Inoltre, un ulteriore bias può essere dovuto semplicemente al numero di osservazioni.
Questo non vuol dire che qualsiasi modello sia intrinsecamente inattendibile, e che l’uso di modelli nella pianificazione politica sia sbagliato, ma significa che i modelli devono essere valutati criticamente e ove possibile testati su set di dati indipendenti prima di essere trasformati in azioni politiche. Far capire questo ai politici, ma anche ai cittadini, è in un certo senso responsabilità dell’accademia.
Un’altra riflessione richiamata da questa vicenda riguarda il rapporto tra politica e scienze, anche in senso lato di saperi cumulati. Non si può non sospettare che in questa storia il decisore pubblico abbia scelto deliberatamente di fare proprio un modello scientifico congruente, se non con le sue inclinazioni programmatiche, almeno con una possibile soluzione ai suoi problemi politici; in questo modo una decisione, politica e orientata in un quadro politico per sua natura, può essere mascherata come “tecnica” e, come per una “legittimazione esterna”, sollevata dal confronto politico che, soprattutto in democrazia, dovrebbe normalmente legittimare l’azione dei decisori.
Quello che può presentarsi come un colpo di mano su una singola misura è un’occasione in cui la classe dirigente si sottrae al proprio ruolo politico e, trascinata dai rapporti di forza, la dialettica politica tutta è sottratta dalle mani della popolazione due volte: la prima poiché vi rinunciano i suoi rappresentanti eletti, la seconda poiché il dibattito pubblico attorno a questioni “tecniche” risulta, quasi per definizione, delegittimato alla radice. Su questo processo di “ottimizzazione della decisione”, già trattato su queste pagine, si veda anche qui e qui.
Quando anche le forze politiche alternative alla classe dirigente avallano questa dinamica, ad esempio reclamando che una maggioranza di governo a loro sfavorevole accodi la propria politica ad un paradigma scientifico che esse condividono, stanti gli attuali rapporti di forza, finiscono per fare il gioco dei portatori d’interesse che beneficiano da una certa confusione nei rapporti tra politica e scienza, interessati a sollevare la propria influenza sulla politica dal confronto pubblico.
Ma questo disordine nei rapporti tra scienza, politica e società è nocivo anche per la libertà della scienza, tanto più garantita quanto più sotto i riflettori di una dialettica politica. Il sapere scientifico è infatti costruito in un contesto sociale e culturale da attori, dagli scienziati alle agenzie pubbliche, che hanno a loro volta una dimensione sociale e culturale in rapporto con quel contesto. L’alternativa è allora tra riconoscere la dimensione politica del processo scientifico e problematizzarla, anche costruttivamente; o perseverare nell’illusione di isolare questo processo dalla società, illusione funzionale solo ad isolarlo dal controllo pubblico e consegnarlo alle classi dominanti come legittimazione esterna e metapolitica: ci ritroveremmo, alla lunga, con una scienza inopinatamente guidata da un determinato progetto politico e una democrazia svuotata incapace di mettere in discussione quel progetto.
Immagine di Paul Asman e Jill Lenoble (dettaglio) da Wikimedia Commons

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