Pubblicato per la prima volta l’8 dicembre 2017
Un punto di forza del libro di Iofrida e Melegari sta anche nel concludersi con la questione fondamentale su cosa possa significare oggi il pensiero di questo grande autore francese e su come possa proporsi una sua attualizzazione. Prendendo la parola Stefano Berni individua alcuni “assi problematici”, o per meglio dire, che potrebbero aprire una interessante discussione, all’interno dell’opera dei due autori.
Il primo di questi è la ricezione letteraria da parte del primo Foucault da cui sembra partire per costruire il suo progetto, secondo una tesi già portata avanti da Judith Revel, secondo cui già nel primo Foucault ci sarebbero le premesse per il secondo, per il terzo ecc… Come se tutta la sua ricerca fosse il risultato di qualcosa che già era in germe fin dalle prime fasi di analisi teorico-filosofica: la letteratura, cioè, come elemento che dà avvio al progetto foucaultiano di liberazione, di trasgressione, di rottura di un sistema, di creazione di un “soggetto rivoluzionario”, che si incarna proprio in coloro che non hanno voce, in quei folli che spingono il linguaggio oltre la sua struttura logico-discorsiva. In questa costruzione “libertaria” del soggetto si può scorgere, chiede Righetti, un accostamento a Eros e civiltà di Marcuse che parla di liberazione dei reietti, dei sotto-proletari?
Altro punto critico è la dialettica/dicotomia tra ragione e s-ragione: qui si riconosce una trasposizione della contrapposizione nietzschiana tra dionisiaco e apollineo.
La cosa però che spicca è che non si può uscire dal logocentrismo, dalla sfera del linguaggio, nemmeno appunto dando parola ai reietti, ovvero dando parola a chi non ha parola, alla non parola. In Foucault, osserva Righetti, anche stando alla lettura che se ne fornisce nel libro, non si esce dal linguaggio, così da rendere verosimile la “critica” di strutturalismo a volte addotta al pensiero foucaultiano. Così come pare verosimile la critica di Derrida sul fatto che anche nel tentativo di voler spingere il linguaggio al silenzio della follia, di volerlo perciò spingere oltre la ragione, in questa dialettica, appunto, tra ragione e s-ragione, non si può, di fatto, uscire dai presupposti del logos, della ragione di stampo cartesiano, che rimane paradigma di ogni follia, di ogni discostamento da ciò che non è riconoscibile come logos, come cogito, che comunque rimangono termini di paragone, norme cui si contrappone per negazione ciò che in essi non ha posto. Il cogito si afferma tanto più laddove viene negato dal (non) discorso, dalla (non) voce del folle, che però per essere considerata come tale è proprio con quell’altra “follia” della ragione e della razionalità cartesiana che deve avere a che fare: “la separazione ragione/follia diventa la possibilità di far emergere il senso del Cogito, fino a riconoscerlo come un paradigma storico di razionalità: non si può parlare della follia se non in virtù di quest’altro tipo di follia che permette agli uomini di non essere folli e cioè in rapporto alla ragione”[1].
Un altro nodo che Berni sviscera nel testo di Iofrida e Melegari è l’individuazione di Weber come fonte (implicita, dato che Foucault ha sempre ben tenuto nascoste le sue fonti) del pensiero foucaultiano (o per lo meno di una parte del suo pensiero), che insieme a Marx rappresenterebbe un suo imprescindibile riferimento.
Infine, conclude Berni, un altro punto interessante da affrontare sarebbe il problema della dialettica foucaultiana, questo “strano hegelismo”: Hegel è infatti presente nella ricerca di Foucault, ma è un hegelismo mediato dal pensiero francese (soprattutto nel primo Foucault). Foucault non riesce a uscire da questa sorta di “panlinguismo”, da una specie di “ontologizzazione del linguaggio” a scapito della natura.
È vero però che negli ultimi scritti è forte il passaggio a un discorso incentrato sul corpo, sul piacere, sulla carne, sulla natura (in una riscoperta della grecità) ravvisando in questo una rottura con il discorso della conoscenza, ma dall’altro lato si avverte nell’ultimo Foucault anche una riscoperta dell’illuminismo: vi è da un lato l’impossibilità di uscire dalla ragione ma dall’altro questo dinamismo continuo, questi movimenti vertiginosi della ragione stessa, danno vita a una sorta di illuminismo critico, a un criticismo verso una razionalità pura e che si auto-dispiega, autoreferenziale e auto-comprensiva, in quanto si tratta di una razionalità che è perennemente in fieri, costantemente in discussione con sé stessa e continuamente alla ricerca di se stessa.
A questo punto la parola passa ai due autori. Il primo a provare a rispondere o comunque a cogliere alcune delle sollecitazioni emerse durante le due introduzioni è Diego Melegari.
Innanzitutto il giovane filosofo ammette che la lettura del pensiero foucaultiano affrontata nel libro vuole inserirsi e muoversi all’interno di un orizzonte storico-culturale e politico. Dando ragione all’interpretazione introduttiva di Righetti, anche Melegari riconosce che se si può scorgere un filo conduttore, una linea guida nel libro la si può individuare proprio in questo rapporto tra linguaggio-vita e linguaggio-istituzione, o, usando termini foucaultiani, tra verità-lampo (che è quella che mette in luce “ciò che fa un’epoca e al contempo la disfà”) e verità cielo (la verità con pretesa universale, che vuole dire l’essere delle cose)[2]. Ma, continua Melegari, lasciando emergere alcuni punti insolubili, o comunque critici, della ricerca foucaultiana, anche se la “verità, irrompe come un lampo, nelle maglie del potere”, la “deflagrazione” dell’esistente, del costituito e dell’istituito non porta però a nuovo esistente, a nuove istituzioni, a nuove collettività, a un nuovo “comune”. Parafrasando Baudelaire (che Foucault stesso legge) “il presente coglie l’eterno al suo interno” laddove qui l’eterno non è inteso come l’immutabile, bensì come qualcosa che continuamente apre varchi, che produce scarti, ma che rimane incastonato nel cuore stesso del presente.
Per quanto riguarda la dialettica, Melegari sottolinea che nella “dialettica focucaultiana”, a differenza di quella hegeliana, il positivo e il negativo si danno allo stesso tempo senza che vi sia Aufhebung, la conservazione e il “toglimento” (o superamento) di ciascuno dei momenti dialettici, per dirla in soldoni (e banalizzando molto). Non vi è contrapposizione ma appunto “convivenza” tra positivo e negativo, così che ad esempio il potere immediatamente costituisce soggettività e immediatamente produce disciplina; o così come immediatamente l’atto rivoluzionario della Rivoluzione francese libera i reietti della società e immediatamente si costituisce anch’esso come un dispositivo, un meccanismo disciplinante, o infine come il concetto di neoliberalismo che al contempo produce e consuma libertà, in una sorta di (solo apparente) paradosso.
Se questo “valzer degli opposti” ha grandi meriti dal punto di vista epistemologico e di indagine teorico-filosofica, può incorrere in grossi limiti dal punto di vista politico di costruzione appunto di altre collettività, di alternative politiche a quei sistemi e dispositivi disciplinanti e performativi rendendo anche difficile la collocazione politica dello stesso filosofo francese, tanto che qualcuno, in maniera alquanto strumentale, è arrivato a farne una sorta di difensore del neo-liberismo, poiché il filosofo francese sembrerebbe considerare questa visione politica meno burocratizzata e capace di offrire agli individui maggior autonomia e meno controllo disciplinato e disciplinante da parte dei dispositivi e degli apparati istituzionali e statuali.
Ritornando al tema del linguaggio, Melegari ribadisce quanto il problema linguistico sia centrale e come anche il linguaggio usato dallo stesso Foucault cambi durante le sue fasi di ricerca, come si può evincere da Archeologia del sapere in cui il linguaggio stesso si fa archeologico, archivistico, ponendosi come una vera a propria auto-riflessione sui modi e i metodi di lettura (e di scrittura) dell’archivio. Si avverte qui un rapporto di quasi aderenza con i testi antichi per poi irrompere però con attualizzazioni radicali.
Per quanto concerne il rapporto con Max Weber tirato in ballo dalle incalzanti suggestioni di Berni, Melegari afferma che in tanti passi dell’opera foucaultiana si evince il riferimento al sociologo tedesco, soprattutto perché Foucault individua nelle analisi di quest’ultimo una lettura del capitalismo diversa da quella marxiana, soprattutto nel rapporto tra capitale e forme istituzionali.
Infine sul parallelismo con Marcuse il giovane studioso si trova poco d’accordo, soprattutto su un punto essenziale: in Foucault salta completamente la categoria di rivoluzione. Se della totalità del processo rivoluzionario rimane in Foucault l’atto rivoluzionario vero e proprio, l’atto di rottura, dello scontro, della lotta, la radicalità del momento della sollevazione, dell’irruzione, ciò che si perde è però il suo potere trasformativo, il processo trasformativo in sé, la potenzialità di una trasformazione globale che proviene della rivoluzione.
Prende infine la parola l’altro autore del libro, Manlio Iofrida, che per cominciare si dice fiero dell’appellativo di storicismo affidato alla sua opera da Righetti. “La mia formazione”, afferma Iofrida “rappresenta una parte di metodo fondamentale di questo libro”.
Lo storicismo, sebbene criticato da molti come approccio, per il professore bolognese ha invece il merito di mettere in luce anche l’elemento inconsapevole della storia: la storia non è fatta solo dagli uomini, dal motore della loro razionalità, ma vi è anche un fondo irriducibile di natura (si veda anche Shelling in questo), di passività.
Iofrida si riconosce anche nell’analisi di Righetti sul rapporto tra vita-linguaggio come linea direttrice nell’itinerario, pur fatto di salti e di cambiamenti, foucaultiano; e se c’è un passaggio al linguaggio analitico questo, più che riconducibile all’analisi di Russell sembra emanare più da quella di Wittgenstein sui giochi linguistici, sul linguaggio cioè che si apre all’“extra-linguistico”. Rimangono certo nella ricerca di Foucault degli snodi non facilmente scioglibili: la vita è un aprirsi a, uno scambio con qualcosa di altro da sé o è piuttosto un continuo contrapporsi? A partire dagli anni ’70 ad esempio la vita diventa una semplice resistenza al potere e quindi, in questa passività la vita diventa essenzialmente afona.
Iofrida parla, collegandosi a questo discorso sul potere, anche di Sorvegliare e punire, capolavoro storico-politico e filosofico sull’evoluzione e i sistemi del diritto penale, diritto che diventerà, nelle sue progressive sofisticazioni una delle matrici di verità della modernità occidentale: il diritto, avvalendosi della figura del testimone, dell’indagine, di tutto un compendio di prove oggettive, istituisce un dispositivo di verità “obiettiva”, producendo un sistema di meccanismi discorsivi che creano – creare inteso nel senso forte di strutturare, non nel senso di inganno fittizio – la verità.
Il vero cambiamento avviene nel ’78 con Sicurezza, territorio, popolazione, in cui entra in crisi l’idea di pura lotta tipica degli anni ’70, concetto che il primo Foucault riprendeva dell’idea di vita come pura lotta di matrice deleuziana. Si assiste a una rottura anche quindi col pensiero di Deleuze, in particolare rispetto al concetto di vita come polemos e a un ritorno a Kant e all’illuminismo (per quanto, come detto sopra, a un “illuminismo critico”). In questa fase anche il potere governamentale non è più solo dispositivo di potere, di disciplinamento dei soggetti, di verità disciplinante, ma diventa anche un aprirsi: il governo non è più mero dominio sugli individui ma si trova a dover rispettare e assecondare delle leggi, a dover rapportarsi, fenomenologicamente, con un’alterità da sé.
Alla fine però, secondo Iofrida, riprendendo l’idea della convivenza tra positivo e negativo, è in ultima analisi il negativo a prevalere nel pensiero foucaultiano. C’è sempre un fondo di tragicità in Foucault, tragicità che si evince anche dall’uso che il filosofo francese fa di Nietzche, e che anche in questo, lo distanzia da Marcuse. Il Nietzsche di Foucault è il Nietzsche dell’Origine della tragedia – mentre in Marcuse c’è una vitalità tutta positiva – per poi passare al nietzschianesimo di Geneaologia della morale (dagli anni ’70), contro cioè l’idea metafisica di un’archè, di un principio originario, di una sostanza prima, di un “ursprung” a favore invece dell’idea di un gioco perenne di forze (che starebbe anche all’origine della guerra) che generano i fenomeni dell’esistente.
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http://tysm.org/nuovo-fascismo-o-neoliberalismo-michel-foucault-e-laffaire-croissant/ ↑
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S. Ferrando, Michel Foucault. La politica presa a rovescio. La pratica antica della verità nei corsi al Collège de France, FrancoAngeli, Milano 2012, cit., p. 119 ↑
Immagine di Thierry Ehrmann (dettaglio) da flickr.com

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.