Questione catalana e sinistra
Il referendum autoconvocato dalla Catalogna sulla questione dell’indipendenza evoca analogie e differenze con il caso scozzese. Una regione ricca chiede di separarsi per poter avere il controllo completo delle proprie risorse; il governo centrale di Madrid ha risposto però in modo molto diverso rispetto a quello di Londra, negando ogni spazio per un processo legale verso l’indipendenza (e reprimendo ovviamente il processo illegale).
A sinistra si sono avuti giudizi diversi sulla vicenda: per alcuni non vi è differenza tra il governo regionale di Barcellona e l’egoismo fiscale della Lega Nord; per altri la lotta contro Madrid può essere un grimaldello per rompere l’equilibrio costituzionale spagnolo e passare a uno Stato federale e repubblicano.
La stessa sinistra locale è marcatamente divisa, con ERC e CUP saldamente nel fronte indipendentista, i socialisti che mantengono la propria posizione autonomista criticando però la gestione della fase da parte di Rajoy, Podemos che chiede un referendum legale e contesta duramente non solo il governo ma anche l’intervento del re. Altre formazioni comuniste, come il PSUC-Viu e il PCPC, sono favorevoli al processo di indipendenza ma ne contestano l’attuale direzione, su basi procedurali-politiche o di classe.
Alla base di una buona parte dei problemi più scottanti tra quelli affliggono il Vecchio Continente (ma non solo) sta un’ambiguità sulle fondamenta legittimanti del potere statale. Da un lato, con l’era dei nazionalismi, l’ecatombe della Prima guerra mondiale ed il wilsonismo, il principio liberale di autodeterminazione nazionale è stato riconosciuto a livello ideale come unica ratio indiscutibilmente valida della forma-Stato contemporanea; ma d’altro canto – in un’Europa ancora imbevuta di colonialismo – a livello materiale questo principio ha dovuto cedere il passo alle ragioni della realpolitik, e quindi alla vecchia razionalità patrimoniale (un territorio x appartiene allo Stato y come risultato di antiche eredità nobiliari, perché è stato acquistato contro denaro, perché è stato conquistato manu militari, eccetera).
La differenza tra le due razionalità è palese – l’autodeterminazione presuppone un consenso degli associati, anche eventualmente nel senso del restare parte di uno Stato plurinazionale, il principio patrimoniale con tutta evidenza no – e tale da renderle incommensurabili. L’Europa del XXI secolo, in teoria nazionale e “decolonizzata”, si trascina quasi ovunque dietro questa contraddizione: in Catalogna, in Galizia, in Groenlandia, alle Føroyar e nelle regioni Sami, nel Donbass e in Crimea, in Corsica, in Scozia e nel Nord dell’Irlanda come in moltissime altre regioni vicine e lontane.
Ovviamente le situazioni odierne sono drammaticamente differenti, come le singole storie e gli ambienti politici: in alcune si è arrivati alla guerra civile come nel Donbass, in altre governa una maggioranza ampia in vista di una futura decisione democratica come in Groenlandia, in altre ancora la questione nazionale non è all’ordine del giorno e uno Stato centralizzato governa supportato da un consenso solido. Tutte, però, sono accomunate da questa razionalità ambigua.
Sono le regioni come la Catalogna, dove per ragioni politiche contingenti la contraddizione esplode, che ci ricordano dell’esistenza di una tara storica, che merita come minimo attenzione e riconoscimento. Dal riconoscimento dovrebbe nascere, in politici che in fin dei conti sono incaricati di difendere non l’integrità dell’associazione, ma gli interessi degli associati, la volontà di risolvere positivamente l’ambiguità. Risoluzione che non può non passare attraverso una forma di l’autodeterminazione, da un processo quindi che come risultato, in base alla volontà popolare, porti o all’associazione della regione e del popolo in questione, per libero consenso, allo Stato plurinazionale o all’indipendenza, e quindi al formarsi di una nuova libera associazione.
L’Unione Europea ha l’obbligo morale di ingerire, anche andando contro i governi dei Paesi membri, nelle questioni che riguardano le minoranze e la tutela del diritto all’autodeterminazione al suo interno.
Un modo potrebbe essere costruire un framework di garanzie e meccanismi istituzionali in grado di garantire ai rappresentanti delle minoranze regionali la possibilità di convocare referendum democratici ed eventualmente il necessario il riconoscimento internazionale. D’altronde l’indifferenza tenuta dalle autorità dell’Unione davanti ai pestaggi della Guardia Civil e a manifestazioni in cui vengono intonati inni fascisti nel nome dell’unionismo spagnolo è già una forma di ingerenza, resa più tollerabile solo dal nostro mindset colonialista.
Secondo molti in Spagna siamo di fronte all’insorgere del localismo spinto dalla globalizzazione. La cosiddetta “glocalizzazione” mira a disarticolare progressivamente le strutture unitarie della società civile e della nazione quali basi dello Stato unitario. Effettivamente quello a cui stiamo assistendo è un forte risentimento verso lo Stato che nasce dall’insoddisfazione per una classe dirigente inetta e una Costituzione assolutamente non all’altezza nel rappresentare le spinte federali che in Spagna sono sempre state fortissime. Le forzature esercitate sul referendum del 1 ottobre risultano un chiaro vulnus al buonsenso politico che impone la risoluzione per via pacifica e democratica dei problemi.
I governanti dimostrano la loro bassa statura governando maldestramente un processo delicatissimo, quasi dimenticandosi di avere nelle loro mani un equilibrio difficilissimo. La Spagna ha attraversato nel Novecento guerre civili e decenni di terrorismo indipendentista e oggi la monarchia parlamentare si permette l’impudenza di mandare i militari a murare la gente fuori dai seggi.
È evidente che la spinta in senso repubblicano data dalle forze indipendentiste vuole essere bloccata con ogni mezzo, anche a rischio di far ripiombare il Paese nella guerra civile. Purtroppo per loro il popolo non sembra dello stesso parere e sta dimostrando una maturità ben maggiore dei suoi governanti. Le manifestazioni pacifiche per la richiesta democratica dell’autonomia si contrappongono al ribollire dello spirito franchista degli unionisti.
Il vento reazionario che soffia anche da noi ci porta alle parole di Gentiloni alla Scuola di democrazia di Aosta che compie finissimi distinguo tra sovranità nazionale e sovranismo, rassicurando come “vi siano tutti gli spazi non solo per confermare la fiducia verso l’Europa ma per vederla rafforzata” purché si riconosca che “la riconciliazione con l’idea di patria non ha nulla a che fare con le spinte sovraniste né con l’ostilità verso altre culture e l’annullamento delle nostre identità locali”. Juncker per distinguersi dal conte Gentiloni vaneggia perso tra i fumi dell’alcool di una “via del dialogo” proprio mentre la gente viene presa a bastonate quando si reca ordinatamente e pacificamente con i propri figli per mano a votare.
Sarebbe molto opportuno che anche i comunisti si rileggessero Lenin sull’autonomizzazione (qui) evitando di finire tra le braccia del re, ponendosi contro il popolo stesso. Il grande capitale, nel frattempo, chiarisce da che parte sta: Caixabank e Sabadell, le due grandi banche catalane, hanno già trasferito la sede legale in altre regioni. Le imprese storiche e le multinazionali della Catalogna hanno anch’esse scelto di andarsene. E qual è di grazia la ragione di tale fuga? Siccome stavolta non c’era bisogno di ricorrere alle minacce preventive per estorcere alcun voto, dal momento che il voto stesso è stato definito illegale, siamo di fronte a delle ragioni puramente economiche. Lo Stato di diritto ha chiesto alla democrazia di pagare il suo pegno e così è stato.
Prevenire un’addio della Catalogna dalla Spagna che comporterebbe anche l’addio all’Europa e al sostegno, nel caso del credito, della Bce, è la ragione di fondo di tale chiusura repressiva. Fondo monetario e agenzie di rating hanno già evidenziato tutti i rischi della secessione, mostrando come nei fatti la Catalogna secessionista abbia già il fiato sul collo dei mercati nel caso voglia proseguire la sua lotta.
Dmitrij PalagiLa sovranità è un problema, così come il potere. La politica nasce per dare risposte razionali alle grandi questioni inerenti all’umanità nel momento in cui questa si organizza per convivere. Senza prenderla troppo larga sarebbe bene che gli eredi dell’internazionalismo sapessero cogliere l’elemento della classe come principale punto di riferimento, riuscendo a passare sopra le evidenti contraddizioni di chi discute su quale dimensione sia funzionale al socialismo: federazione europea in chiave geopolitica, ritorno alle nazioni per sfruttare la categoria di popolo contro quella del capitale globalizzato o creazione di piccole autonomie in cui sviluppare il processo di messa in discussione dello stato di cose presenti?
A Girona ricordo di aver visitato un’interessante mostra sulla resistenza a Franco in Catalogna. In casa sventola, al fianco di altre, la bandiera Estelada socialista (stella rossa su sfondo giallo) degli indipendentisti marxisti. Non nascondo quindi la mia simpatia, che va a tutte quelle comunità in grado di fare della solidarietà un elemento di identità. Un conto sono i sentimenti, però, un conto le analisi. Nessuna forma organizzata tutela la difesa degli interessi di classe di per sè.
Nessuna istituzione può sostituire l’unica arma a tutela dei diritti: i rapporti di forza.
Se il percorso catalano permetterà di porre al centro della società le lavoratrici ed i lavoratori, si potrà effettivamente registrare una positiva evoluzione storica nel vecchio continente, sia che si estenda il conflitto sul piano nazionale, sia che si sviluppi una progettualità sinceramente federalista e repubblicana, sia che si arrivi ad una improbabile e praticata dichiarazione di separazione.
Colpisce l’emozione con cui la sinistra italiana si divide, tra pseudo-sovranismo e sogni di rivoluzioni a dimensione locale (“il socialismo in una sola regione”).
Le contraddizioni di ogni processo radicato nella realtà garantiscono il vuoto risuonare delle tifoserie. L’importante è non sottovalutare quanto sta avvenendo.
La Catalogna come la Scozia è una regione ricca che intende separarsi dallo Stato centrale perché stanca del peso costituito dalle regioni più arretrate e bramosa di poter godere in autonomia delle proprie risorse (petrolio in Scozia; banche, industrie e servizi in Catalogna). Un simile egoismo territoriale è del tutto affine a quello propinato in Italia dalla Lega Nord; chi lo nega, sostenendo che la Catalogna è una nazione reale mentre la Padania è un’invenzione, non coglie due punti.
Il primo è che tutte le tradizioni, ivi compresa quella catalana, possono essere “inventate” (Hobsbawm); il secondo è che la Padania è una finzione, ma lo stesso non può dirsi ad esempio della Lombardia. Forse non esiste una letteratura in lingua lombarda, risalente al Medioevo? Forse non esiste il precedente storico dello stato regionale lombardo? Forse uomini considerati simbolo dell’unità nazionale, come Verdi e Manzoni, non possono essere sfruttati per costruire un nazionalismo lombardo?
Fortunatamente in Spagna, a differenza che nel Regno Unito, il governo centrale non ha fornito alcuna legittimazione alle spinte scioviniste e demagogiche della borghesia secessionista, alla quale nessun appiglio è fornito dal vigente diritto internazionale: la Catalogna non è né una colonia né sotto occupazione straniera né terra di minoranze oppresse (il catalano è riconosciuto e insegnato dal lontano 1982). Le critiche che si possono muovere a Madrid riguardano piuttosto l’insufficienza della repressione: perché la Generalitat, in aperta ribellione contro lo Stato, non è stata sciolta? Perché la polizia regionale, che ha rifiutato di eseguire un ordine giudiziario, non è stata disarmata? Perché i capi dei Mossos e della Generalitat, alla guida di questa eversione, sono ancora a piede libero?
Le violente pulsioni egoiste che fomentarono il consenso al nazismo sono da troppi anni ignorate in tutta Europa, probabilmente perché disarticolando la società esse convengono ai grandi capitalisti. Contro il Movimento 5 Stelle, contro il Front National, contro la Brexit, contro Alternative für Deutschland, contro la Fpö, contro il Pvv, contro il Folkeparti, ecc. nulla è stato fatto se non chinarsi come giunchi, aspettare l’alta marea e sperare di cavarsela.
La Catalogna è certamente una nazione che dovrà un giorno raggiungere la propria indipendenza, includendo anche le Baleari, parti dell’Aragona e del Valenciano, il Rossiglione, Andorra e Alghero, e prevedendo al proprio interno un’autonomia per l’area occitana della Valle d’Aran. La Catalogna ha diritto all’autodeterminazione in virtù della propria specificità culturale, come vi hanno diritto la Scozia, il Northumberland, la Normandia, la Galizia, la Corsica, la Slesia, la Lapponia, la Provenza e innumerevoli altre regioni.
Questo sarà possibile solo in un sistema di libere nazioni socialiste europee. Il solo percorso possibile a mio avviso è il seguente: costruzione del super-stato continentale, pianificazione socialista dell’economia, sviluppo delle forze produttive, transizione a un sistema di produzione più avanzato, transizione a un sistema politico strutturalmente democratico, progressivo decentramento amministrativo.
P.S. Ovviamente, qualsiasi proposta di “dialogo” (!) con gli eversori è da respingersi.
Non è facile schierarsi sulla questione della crisi catalana. Sono molte le ambiguità che regnano in ambo gli schieramenti, sia fra gli indipendentisti che fra gli unionisti. La polarizzazione fra Madrid e Barcellona è anche il risultato di una politica che è andata nella direzione di cercare di limitare la sfera di influenza e di governo delle comunità autonome, prassi che ha avuto una decisa crescita sotto il Partito Popolare che guida la Spagna dal 2008. Il risentimento catalano è dunque cresciuto anche per la percezione di un ruolo da protagonista di Madrid, sempre più vista come una macchina oppressiva. ù
Il discredito della famiglia reale, coinvolta in scandali di corruzione ha poi anche sempre più delegittimato la monarchia spagnola, vista non a torto dagli autonomisti e non solo come anacronistica ma difesa a spada tratta dall’esecutivo spagnolo. A Rajoy e soci si può inoltre rimproverare di non aver saputo trovare un canale dialogo con Barcellona quando era ancora possibile.
L’errore strategico con conseguente danno di immagine per aver mandato la Guardia Civil a impedire ai catalani di entrare nei seggi elettorali, per un referendum non riconosciuto, ha complicato ulteriormente la situazione e gettato nuova benzina sul fuoco. Dalla loro parte gli indipendentisti catalani non sono le povere vittime democratiche oppresse dal cattivo dittatore franchista di turno che una certa rappresentazione degli eventi potrebbe portare a far credere.
Innanzi tutto c’è un problema di numeri: solo circa metà della popolazione catalana vuole l’indipendenza il che fa pensare che una Catalogna separata dalla Spagna non rappresenti pienamente la volontà popolare oltre al fatto che si troverebbe a gestire a sua volta una paese spaccato in due. Pensare che la democrazia sia semplicemente andare alle urne non è solo ingenuo ma è anche pericoloso, in particolare perché potrebbe innescare un processo per cui una élite, col pretesto di avere una maggioranza elettorale, arrivi a forzare in maniera autoritaria un processo antidemocratico di separazione.
C’è poi un discorso ideologico più complessivo che resta piuttosto controverso. Che il pensiero indipendentista non sia riducibile alla categorie di destra e di sinistra non è una novità ma il problema specifico del caso catalano risiede nel fatto che, come ha scritto il politologo spagnolo Fernando Vallespín, la promessa dell’indipendenza ha permesso a chiunque di proiettare sulla Catalogna la sua peculiare utopia, mettendo da parte gli elementi che piacciono di meno e sottolineando le rivendicazioni che si hanno più a cuore. Così ad esempio da sinistra molti si immaginano che la lotta per l’indipendenza coincida con quella per mettere fine a quelle misure di austerità che però sono state introdotte e implementate dagli stessi promotori del Referendum. Stesso discorso per chi proietta nella Catalogna indipendente una lotta per la redistribuzione, contro la corruzione o per promuovere una maggiore integrazione europea.
Personalmente sono un grande estimatore del popolo catalano e della sua turbolenta storia. Tendo a simpatizzare con la CUP ma trovo irrealistico pensare che la separazione con la Spagna aumenti le chance di edificare una catalogna socialista. L’augurio è che non sia troppo tardi per dialogare e che ciò porti a ridiscutere l’assetto costituzionale spagnolo, nella direzione di uno stato federale e possibilmente a partire da un referendum, questa volta sulla monarchia.
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